Alfredo Somoza
Dal 1° ottobre 2016, la moneta cinese (lo yuan o renminbi) entrerà nel ristretto club delle valute di riferimento mondiale. Il Fondo Monetario Internazionale ha deciso di assegnare alla moneta di Pechino il 10,92% dei “diritti speciali di rilievo”, l’unità di conto delle riserve dell’istituzione multilaterale. Saranno quindi cinque le monete che comporranno il paniere delle valute forti: le altre sono il dollaro USA (42%), l’euro (31%), la sterlina britannica e lo yen (8% ciascuno). Un successo per la Cina, che in qualche modo compensa la delusione per il persistente veto statunitense che ha finora bloccato una maggiore partecipazione di Pechino al capitale dell’istituzione monetaria globale. Nell’assemblea del FMI i fondi conferiti generano quote equivalenti a voti: in questa istituzione fortemente voluta dagli USA, infatti, non vale il principio “una testa un voto” ma i voti sono ponderati in base alla partecipazione al capitale del Fondo stesso.
La valuta della Cina, Paese ancora formalmente comunista, entra dunque nel “salotto buono” delle monete: un evento che spiega meglio di cento trattati il successo del lungo percorso iniziato alla fine degli anni ’70, con le riforme di Deng Xiaoping. Riforme che hanno creato innanzitutto due realtà separate: la Cina profonda, delle campagne su base collettivista, e le moderne città della costa, aperte all’afflusso di capitali stranieri e all’arricchimento personale. Una contraddizione che non è mai esplosa, ma anzi ha alimentato il più grande spostamento di manodopera mai registrato all’interno di una singola nazione.
Oggi la Cina è la seconda economia mondiale e vanta il principale apparato industriale del pianeta. Ma detiene anche il record dell’inquinamento e dell’impatto sul cambiamento climatico perché non produce beni solo per il proprio mercato ma è di fatto la fabbrica del mondo.
Le debolezze sono anch’esse visibili, e riguardano principalmente l’architettura finanziaria del Paese, come è emerso nello scorso luglio durante la tempesta che ha investito la Borsa di Shanghai. Il mercato finanziario di Pechino è grande ma squilibrato, il mercato dei capitali è ancora inadeguato e quello azionario dominato dalla speculazione.
Ma un dato è indiscutibile: il riconoscimento internazionale dello yuan anticipa il prossimo conferimento dell’ultimo attestato, che sancirà il definitivo ingresso della Cina tra i Grandi del mondo. E cioè il riconoscimento dello status di “economia di mercato”, cosa che non è una semplice formalità. Se rilasciato, abbatterebbe i dazi che le merci cinesi devono pagare quando entrano in Europa o negli USA, e Pechino sbaraglierebbe definitivamente i settori industriali superstiti in Occidente.
La logica dice che la Cina ha ormai superato tutte le prove per dimostrare che non è una forza antagonista alle vecchie potenze né al capitalismo. Ma la strada è ancora lunga per il gigantesco Paese-laboratorio che, negli ultimi 20 anni, non solo ha ridefinito il mercato mondiale ma ha portato anche a rimettere in discussione il rapporto tra benessere e democrazia: due concetti che, fino al successo cinese, parevano costituire un binomio obbligato.
Ecco la Cina che con le sue contraddizioni, con il suo partito unico, con la sua moneta fino a ieri valida solo all’interno dei confini nazionali non solo rivendica ma comincia a guadagnare poltrone di prestigio nei vecchi club dell’Occidente.
di Alfredo Somoza per Esteri (Radio Popolare)
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