Recensione di Goffredo Fofi del film An anarchist life pubblicata da “A Rivista Anarchica“.
Un libro di Claudio Venza e Clara Germani, L’anarchico triestino, edito da Odradek nel 2011, ci aveva fatto conoscere la vita del fabbro Umberto Tommasini (Vivaro del Friuli, 1896/1980), militante “di base” costretto dalle circostanze – il fascismo, la guerra di Spagna, lo stalinismo – alla prigione e al confino (a contatto con Gramsci e con Bordiga), all’esilio in Francia, e alla partecipazione convinta e dalla parte giusta alla guerra civile spagnola, dove era stato vicino a Durruti al tempo della breve estate dell’anarchia, (titolo del libro più bello di Enzensberger) e soprattutto a Berneri (di qui la sua motivata ostilità, protratta nel tempo, verso il comunista triestino Vidali, emissario del Pcus e repressore degli anarchici, a lungo considerato dai comunisti italiani e russi come un eroe). Nel film di Bormann e Toich (Ivan Bormann, Fabio Toich, An anarchist life) che torna sulla vita di Tommasini e ne mostra o ricostruisce le vicissitudini, le immagini di Berneri contrapposte a quelle di Vidali sono molto eloquenti, i loro sono volti che dicono, che sembrano corrispondere alle loro anime…
Vita da anarchico, quella di Tommasini, ma anche da fabbro, da proletario, come risulta dal bel documentario a lungo metraggio composto con materiali diversi da due giovani triestini, Ivan Bormann e Fabio Toich, mentre un altro giovane triestino, Fabio Bobich, commenta la vita spesso sé malgrado avventurosa di Tommasini con agili disegni animati di “linea chiara”, dal segno vivo ed essenziale.
I registi hanno giocato sulla diversità e disparità tra i materiali recuperabili e le riprese ad hoc. Tra i primi molte foto e una lunga intervista con Tommasini di qualche anno fa, che ce lo rende vicino e simpatico con la sua faccia vissuta e pulita, e molte immagini rubate a film e documentari sulla guerra civile e ad altri, scegliendo tra le meno viste e le più adeguate. Tra i secondi i commenti di chi l’ha conosciuto, asciutti ed emozionanti, e quelli veloci e forse superflui di tre dei non molti artisti che oggi si dichiarano più o meno anarchici (Celestini, Cristicchi e Cacucci), lievemente retorici. Nell’incontro conviviale programmato tra amici conoscenti parenti di Tommasini e ripreso dai due registi spicca per intima somiglianza un giovane nipote, una maestra triestina, alcuni vecchi compagni di Umberto, e tra loro c’è Elis, un fabbro anarchico di oggi che è anche animatore culturale di rilievo dalle parti di Marghera e di Mestre. L’insieme è caloroso e simpatico, un degno omaggio alla vita di un “militante di base” vissuta con pudore e con coerenza, e per questo esemplare, un modello per tutti e soprattutto per certi militanti di oggi che amano considerarsi più di quel che sono e ignorano la virtù (rivoluzionaria) del sapersi giudicare, in un’idea di militanza piuttosto esteriore, recitata. Non sembra proprio che Ivan e i due Fabio e il giovane Tommasini e gli amici del vecchio appartengano a questa categoria di persone, ed è anche questo uno dei pregi del film.
A esso, se vogliamo trovare dei limiti, possiamo rimproverare soltanto il titolo inglese, anche se ne capiamo le ragioni in vista di una possibile circolazione fuori d’Italia, e – come succede per la maggioranza dei film a impianto documentario che ci capita di vedere – un montaggio non abbastanza “stretto”, una tensione che a volte si allenta. (Ma questo non riguarda il film di cui parliamo, che è tutt’altro che noioso e la cui visione è sempre appassionante. Lo diciamo in generale: c’è una sorta di obbligo non scritto a far durare un film un’ora e mezza di media, per ragioni di circolazione, e ci sono film che sarebbero molto migliori se durassero un’ora o mezz’ora e altri che hanno bisogno di molto più tempo per approfondire il loro progetto. Perché non devono esserci dei film-poema o dei film-racconto invece che, sempre, dei film-romanzo, o al massimo dei film-saggio? È questo un ricatto o una moda di questi anni, che fa perdere di forza a molte opere degne. La misura di Anarchist life è però quella giusta.).
Un motivo invece di grande interesse, oltre a quello della documentazione e del racconto di storie taciute o censurate del Novecento proletario e rivoluzionario, è che il film racconti la vitalità di una storia complessa di un’Italia di più confini, che come tante storie “di provincia” e di margini non vengono considerate quanto meritano dai padroni del mercato della cultura, che stanno a Roma e a Milano.
Umberto Tommasini
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