Ma ve li ricordate? (un monologo sugli incidenti sul lavoro)
Intervento scritto per il seminario “Nuovi orizzonti per un cantiere sicuro”, Reggio Emilia, 4 maggio 2017)
Ve li ricordate?
A Bari c’è Bartolomeo. Fa Deserio di cognome e ha 43 anni. Sui giornali delle sale d’aspetto dei dentisti e dei parrucchieri ci sta scritto che a 43 anni inizia la giovinezza, che non è più mica come prima. “Splendidi quarantenni”, sotto le foto, sempre così. Bartolomeo tiene pure due figli, come dice lui, uno di quattordici e l’altro di sette. E lo dice come una filastrocca. Dal 1985 lavorava in una grande impresa edile di Bari, di quelle che prendono tutte le commesse che contano laggiù in Puglia. Lui alle 4.30 del mattino si sbarbava, si sbollentava un caffè e prendeva il pulmino che raccoglie gli operai verso Brindisi, dove il cantiere apriva alle 7, mi raccomando puntuali. A dirla tutta lo guidava, Bartolomeo, il pulmino. Pulmino, cantiere, pulmino. Bari, Brindisi, Bari. Rientrava a casa alle 18.30 quando andava bene. Quattordici ore, ad andar bene. Erano le tre del pomeriggio del 1996 quando il martello pneumatico gli si è incastrato nel calcestruzzo tra l’armatura in ferro. Bartolomeo, per disincastrarlo ha fatto un salto indietro, poi due e poi tre per non rimanerci martellato: “grave trauma lombare e conseguente paralisi del verbo sciatico della gamba sinistra” c’era scritto sul certificato del medico. Zoppo a vita, insomma. Patente declassata e una paura fottuta di mostrarsi troppo zoppo. «Quando mi vedono zoppicare cosa penseranno; mi licenzieranno? Come farò a tirare avanti la mia famiglia?», racconta Bartolomeo. E quindi niente, pronto subito al ritorno in cantiere. Sforzandosi di non sembrare storpio. Ma quando 4 anni dopo c’era da scaricare dei tubi senza imbracatura perché il muletto stava impegnato e c’era da fare in fretta quella gamba non ha tenuto: trauma cranico-cervicale, nuovo foglietto. Il capo cantiere si spaventa e Bartolomeo finisce per essere rimbalzato in giro per cantieri, 14, 15 ore al giorno tutti i giorni. E poi giù, sempre peggio. Fino a quando l’azienda lo spedisce alla visita d’idoneità dal medico aziendale: non idoneo. E comincia il tunnel delle carte bollate. Ora Bartolomeo ha una grave osteoporosi vertebrale con crolli di tre vertebre dorsali, il morbo di Chron, una malattia esofagea detta metaplasia di Barrett che è una (malattia precalcerogena), gastrite cronica, ernia iatale, scoliosi e ipercifosi, ernie cervico-dorso-lombare con artrosi, spondilosi, e osteofitosi, prostatite e ipertrofia prostatica, iper- tensione arteriosa, fibrosi polmonari interstiziali, con insufficienza respi- atoria restrittiva sindrome del tunnel carpale del nervo mediano bilaterale ed ulnare di sinistra, tutte e due le braccia rovinate, ossia le ossa e i tendini dei bicipiti dei muscoli laterali e dei sovraspinosi. Lo splendido quarantenne.
Ve li ricordate?
Nicola invece era partito da Caserta per fare l’operaio in una ditta di pasta fresca a Reggio Emilia. Lui, la moglie e la loro bambina. Il 24 maggio del 2005 i carabinieri suonano il campanello della moglie e le dicono che suo marito ci è finito impastato lui, dentro la macchina impastatrice. «È come se mi fossi addentrata in un tunnel buio dove non si vede il fondo, però fatto il primo chilometro, gli occhi si sono abituati alla semi oscurità rendendo meno difficile il cammino, non so verso dove o cosa. Nel frattempo, però, a volte non ho neanche voglia di camminare. Lui è sempre il primo dei miei pensieri quando mi sveglio e l’ultimo prima di addormentarmi. Spesso parlo anche con lui, altre volte invece mi è difficile perché vorrei sentire una risposta da parte sua. È un alternarsi di giorni brutti e di giorni un po’ meno brutti.», racconta lei. Ci ha messo un anno per trovare il coraggio di dirlo alla figlia. Un anno.
Ve li ricordate?
Andrea invece aveva 23 anni. Ve lo ricordate Andrea? Era così felice della sua auto nuova, un’Opel Corsa nera come la notte, comprata a rate. L’Asoplast di Ortezzano l’aveva fatto “grande” e ora poteva avere un’auto tutta sua. “Stampaggio di materiale in propilene, pvc e tampografia”, c’era scritto sui depliant. Il 20 giugno Andrea si alza alle tre e quarantacinque del mattino per essere in fabbrica puntuale per le cinque. Da Porto Sant’Elpidio è un bel pezzo di strada. Alle sei e dieci la macchia tampografica comincia a dare problemi, Andrea le mette in stand-by e ci fruga dentro. Mancavano le “adeguate misure di sicurezza”, dice il processo. La pressa è ripartita è Andrea ci è rimasto dentro con la testa, tra i tamponi. Andrea Gagliardoni.
Ve li ricordate?
Non è mica facile ricordarseli tutti, ‘sto morti ammazzati, rimasti mezzi sderenati, finiti incastrati, mutilati, schiacciati, trinciati, calpestati, investiti, annegati, soffocati, addormentati. Morti. Dico, ve li ricordate?
Bruno Galvani, ad esempio. Bruno non era nemmeno maggiorenne. A diciassette anni era già a libro paga di una ditta artigiana. Cisterne di gasolio per uso domestico e agricoltura e cancellate in ferro: dimmi che lavoro fai e indoviniamo cosa potrebbe ucciderti. Ogni tanto funziona così, qui. Anche se alla fine Bruno dicono che gli “è andata bene”, in fondo. Se non muori sul cantiere o in fabbrica “ti è andata bene” perché in giro da qualche parte del mondo al posto tuo, con un lavoro uguale, ci è già morto sicuramente qualcuno, senza nemmeno bisogno di guardarsi le statistiche. Bruno a diciassette anni lavorava in una squadra da otto, otto operai in tutto, di cui metà minorenni e l’altra metà di anziani che per anzianità si sono eletti capi. “Prendi il muletto e sistema quelle cisterne”, gli ha detto quel giorno il capo. Come se fosse un ordine lanciato di fretta a un cameriere, con la superficialità di chi tiene il punto sulle merci e poi, solo dopo, al massimo, se c’è tempo, sulle perone. Bruno il muletto non l’aveva mai guidato in vita sua, a dire la verità. Ma a diciassette anni e con pochi mesi sulle spalle pensi che se te l’hanno chiesto funziona così. Così ci sono Bruno, il muletto, la ghiaia del piazzale e le caldaie da inforcare. E poi il buio. Come diventa buio quando si scrive, si ascolta o si racconta di questi feriti stramazzati da quattro soldi.
Bruno racconta che quando ha riaperto gli occhi come prima cosa ha pensato al dispiacere che avrebbero provato i suoi, a vederlo per terra tutto pieno di sangue. Non ha pensato a sé; al dispiacere dei suoi genitori. Racconta. E poi i colleghi di lavoro che piangono e la sirena dell’ambulanza che is avvicina. Cento punti di sutura. Gli hanno dato cento punti di suturo, gli hanno riallacciato la testa, come una cerniera. E un anno di ospedale. Più di quanto aveva fatto in azienda. Dopo un anno, i medici, la frase: “non camminerà più sulle sue gambe, caro Bruno”, gli dicono i medici. “Davanti ad una sentenza di questo genere a diciassette anni, credetemi, in quel momento vorresti che l’incidente ti avesse ucciso – lo racconta lui, così, parola per parola – che la tua vita fosse finita in quel momento e pensi che non è umanamente accettabile dover vivere per sempre da paralizzato. E tutto per colpa non dico di un incidente in moto, mentre ti stavi divertendo e facevi il pazzo. No, mentre stavi lavorando per poterti permettere una pizza con gli amici, vestiti nuovi, magari un domani un’auto usata, una vacanza con una ragazza”. Mentre Bruno racconta la sua storia non ha nemmeno un alito di rabbia nella sua voce. “A queste cose si pensa – dice Bruno – e si deve pensare a diciassette anni. Non do- ver pensare se la vita è “finita” oppure no. Se la tua ragazza ti vorrà ancora oppure se non saprà che farsene di un invalido. Che non potrai più sentire il vento nei capelli. Che i tuoi amici non ti considereranno più quello di prima. Che non avevi mai visto in giro fino a questo momento, dove in- vece sei contornato da tante altre persone giovani o vecchie nelle tue stesse condizioni fisiche, una sedia a rotelle e pensavi che una cosa del genere potesse toccare solo agli “sfortunati dalla nascita” o agli anziani. Dopo un anno di ospedale realizzi che il tuo datore di lavoro non è mai venuto a trovarti neanche una sola volta e neppure ti ha mandato una lettera. Dopo un anno di ospedale realizzi che lì, in quel posto dove conosci tutti e tutti conoscono quello che ti serve e quello che pensi e soprat-tutto tanti sono come te, ci stai troppo bene e non vuoi più andartene. Perché andartene vuole dire dover ricominciare a vivere. Vuole dire vedere gli occhi delle persone che incontri per la strada che non ti “guardano” o ancora peggio non ti “vedono”. Vuol dire, in seggiola a rotelle, fare una fatica incredibile per percorrere i marciapiedi della città ingombri di biciclette e bidoni della spazzatura. Vuol dire pensare che alla fine dovrai tornare a lavorare da qualche parte e già ti rendi conto che nessuno ti vorrà perché ti riterranno solamente “un peso sociale”. La storia di Bruno non va nemmeno toccata sulle virgole, va detta così, virgolettata come la dice lui: “Non nascondo che, soprattutto i primi anni, è stata veramente dura accettare una sorte di questo tipo. Ma poi le vicende della vita mi hanno portato a credere ancora in me stesso e nelle persone. E soprattutto a cre- dere che vale sempre la pena accettare le sfide che la vita ti riserva, per- chè cadere e poi rialzarsi è una cosa che dà una forte soddisfazione e so- prattutto ti dà la voglia di cercare di migliorare questa società che è ancora ben lontana dall’essere la società di tutti. Nel corso degli anni ho trovato una persona che mi ha amato e io ho amato lei. Oggi abbiamo due figli e difficilmente penso alla mia condizione fisica, se non davanti agli ostacoli fisici o psicologici che periodicamente ancora incontro. Oggi mi sembra una cosa normale spostarmi su una seggiola a rotelle. Ma ancora oggi non mi sembra normale che così tanti giovani (ma non solo loro) escano di casa al mattino per andare a lavorare e guadagnarsi uno stipendio e non tornano più a casa o ci tornano mutilati per sempre. Perché è vero che la vita non ha prezzo, ma è altrettanto vero che chi ha pagato un prezzo così elevato al benessere economico della nazione merita più rispetto di quello che ha oggi.” Dice così. E poi ringrazia. Perché dice che serve, che la sua storia si ascolti in giro.
Dico, ve li ricordate? No, non ce li ricordiamo mica. Perché una storia di un incidente sul lavoro, che qui dalle nostre parti chiamano morti bianche anche se il sangue è rosso come il sangue di tutti quegli altri, finisce raramente sparata sui giornali o in televisione e quando ci finisce dura giusto il tempo di una commozione tra i due spot pubblicitari. Dico, Paola Clemente, la bracciante. Ve la ricordate? Io confesso che la storia di Paola Clemente è una di quelle che mi sbriciolano il cuore. Sarà che in fondo per chi come me è cresciuto nell’are metropolitana milanese la parola “bracciante” è un suono che sembra provenire da un’altra epoca, da un altro pianeta o forse sarà che immaginare una donna (madre e moglie) che si secca sotto il sole per sgonfiarsi cadavere in mezzo ai pomodori è una storia che ha dentro tutti i peli peggiori: la dignità che si fa salsa, la schiavitù come resistenza ultima alla disperazione, il lavoro quando diventa annullamento della persona e il senso del dovere che si trasforma in giogo mortale.Paola Clemente aveva 49 anni e lavorava dalle 5.30 fino alle tre del pomeriggio, qualche volta anche alle sei, per 27 euro al giorno. Quella busta paga è una lama che affetta un Paese intero. Nemmeno tre pezzi da dieci euro per rinsecchirsi sotto il sole che sale verticale: ma come li spieghiamo questi morti ai nostri figli? Che diciamo a Stefano, suo marito, e a tutti i sopravvissuti della sua famiglia? Sono finite in carcere sei persone: tre dipendenti di un’agenzia interinale di lavoro (avvoltoi sulle costole degli sfruttati) e gli altri anelli di una catena di comando che trasforma le persone in chili di prodotto raccolto e nient’altro. Eppure sei persone, basta poco a capirlo, non possono da sole costruire una giungla che stringe la gola a pezzi interi di Paese. Mentre scriviamo la servitù bene educata continua a macinare vittime; forse non muoiono, riescono a svenire sul letto a fine giornata aggrappati all’ultimo esile respiro ma hanno addosso le stigmate dell’ingiustizia.
C’è un’ombra di giustizia, sul cadavere delle Paole che strisciano nei campi per due euro all’ora. Ma continua a essere notte sotto la calura assassina del sole…
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fonte: Left