di Angelo Gerosa. Quando in Europa leggiamo delle minacce di Donald Trump di non accettare il responso delle urne o che il Partito Repubblicano, a pochi giorni dal voto, potrebbe togliergli la fiducia, fatichiamo a comprendere. Per capire il significato di queste affermazioni dovremmo conoscere meglio le loro regole elettorali, tanto diverse e, forse, anche troppo poco democratiche.
Radicalmente diverse. Da noi è impensabile che a perdere sia il candidato più votato, o che la volontà degli elettori possa venire stravolta, o che il diritto di voto sia condizionato, o che il suffragio non sia universale. Negli USA è tutt’altro che impensabile: è l’esatta realtà.
Le elezioni possono tranquillamente essere vinte dal candidato meno votato, come avvenne nelle elezioni presidenziali del non lontano 2000, in cui il repubblicano George W. Bush, pur distaccato dal democratico Al Gore di ben 540.000 voti, venne proclamato 43º Presidente degli Stati Uniti d’America.
A determinare quel risultato fu lo Stato della Florida, allora governata dal fratello di George Bush, in cui il primo scrutinio diede ai repubblicani un vantaggio risibile: 500 voti su quasi 6 milioni di schede. Ne conseguì una controversia giudiziaria sul conteggio dei voti e la Corte Suprema, pur ammettendo macroscopiche “stranezze”, dovute a circa 180 mila voti annullati per errori formali, negò la verifica delle schede elettorali.
Pertanto i 25 grandi elettori della Florida furono assegnati ai repubblicani (i grandi elettori dello stato vengono assegnati al candidato più votato, senza alcun criterio di proporzionalità) che si trovò così ad avere 271 grandi elettori contro i 267 grandi elettori di Al Gore.
Per la verità neppure ad elezione ufficialmente conclusa c’è da stare tranquilli in quanto vi è sempre la possibilità che il risultato venga ribaltato e la volontà espressa dagli elettori “legalmente” annullata. Infatti i grandi elettori, impegnati solo sulla parola a votare per il loro candidato, potrebbero anche comportarsi diversamente.
Ipotesi assurda? Non tanto. Sempre nelle elezioni del 2000, una grande elettrice di Al Gore non lo votò. Si astenne, ma se anche avesse votato per Bush il suo voto sarebbe stato legittimo in quanto la legge non stabilisce un obbligo di “fedeltà” al mandato popolare tale da poter annullare eventuali “tradimenti”.
Per concludere non si deve dimenticare che le elezioni presidenziali statunitensi non sono a suffragio universale. Il diritto di voto infatti è “condizionato” all’avvenuta iscrizione ai registri elettorali e milioni di cittadini, soprattutto di colore, non lo sono.
Inoltre i 4 milioni di statunitensi abitanti a Puerto Rico e nelle altre isole statunitensi del Pacifico sono esclusi dal voto e devono accettare il presidente eletto dai loro concittadini.
In questa situazione è chiaro che una minaccia di non accettazione del voto, soprattutto se accompagnata da eventuali clamorose proteste, potrebbe mettere in crisi un sistema tanto ricco di pecche.
All’inizio della campagna elettorale i sondaggi davano a Trump la maggioranza dei voti ed a Clinton la maggioranza dei grandi elettori.
E’ sufficiente sfogliare i nostri giornali del 2000 per rendersi conto che la scelta di Al Gore, che accettò il risultato elettorale, stupì moltissimo gli osservatori europei. E se in una situazione simile Trump non dovese farlo?