Primarie Usa. Vittoria netta alle primarie del New Hampshire per il candidato «socialdemocratico» che piace ai giovani e ora anche all’elettorato femminile. Clinton studia la rivincita ma sbaglia contromosse
Sanders è primo, «yes he can»
Bernie Sanders – vittoria alle primarie in New Hampshire © Reuters – LaPresse
Luca Celada
In una notte storica un socialista ebreo ha vinto le primarie del New Hampshire. Bernie Sanders ha messo a segno una vittoria decisiva contro Hillary Clinton, battendo la «favorita» per la nomination democratica con il 60% dei voti.
Pur se non imprevista in questo stato confinante col Vermont del senatore «socialdemocratico», è stata una sonora batosta per l’ex first lady e un risultato che dopo il «pareggio» in Iowa ha legittimato ulteriormente Bernie Sanders come effettivo pretendente alla nomination.
Un esito prefigurato quasi subito dagli exit poll secondo cui l’argomento più caro agli elettori democratici del New Hampshire è stata proprio l’ineguaglianza economica su cui da mesi batte Sanders. «Dobbiamo trovare il coraggio di rifiutare lo status quo — ha detto Sanders nel discorso dopo la vittoria — le corporation e i ricchi cominceranno a pagare la loro giusta parte di tasse».
Il boato della folla che lo ha acclamato nel suo quartier generale conferma la «Bernie revolution» in gran parte come una reazione all’endemica speculazione finanziaria che otto anni fa ha precipitato l’America e poi il mondo in una catastrofica crisi economica.
«Gli Americani si sono accollati il bailout di Wall Street, ora tocca a Wall Street sollevare la classe media» ha detto ancora il candidato alla folla giubilante a cui ha ripetuto la propria piattaforma politica. Un programma di welfare che comprende sanità e università gratuite, riforme su giustizia, razzismo e ambiente che fanno di lui il candidato più di sinistra dai tempi delle campagne politiche del presidente del sindacato internazionalista IWW Eugene Debs nel 1912, e il socialista Upton Sinclair nel 1934.
Sanders è il candidato più di sinistra degli ultimi cento anni
«Quando arriveremo alla Casa bianca — ha detto ancora Sanders — big pharmaavrà finito di salassare i cittadini». E come al solito ogni riferimento alle case farnaceutiche o ai grandi assicuratori e agli altri grandi interessi economici da parte di un candidato che ha raccolto milioni in finanziamenti da privati cittadini (contributo medio $27), è stato un implicito riferimento ai forzieri della sua avversaria, rimpinguati invece proprio da grandi benefattori.
Per Hillary Clinton i rapporti molto amichevoli con l’establishment finanziario si sono ancora una volta rivelati un tallone d’Achille che fra gli elettori di questo stato, noti bastian contrari, si sono rivelati fatali.
Nel complimentarsi con Sanders, Hillary ha tentato di archiviare la sconfitta come un prevedibile incidente di percorso nel lungo iter elettorale che si ora si sposta in Nevada e South Carolina. Qui dovrebbero pesare a suo favore i primi settori consistenti di elettori neri e ispanici. A loro Clinton conta di proporre le «soluzioni concrete a problemi concreti» non contenute a sua dire nella piattaforma «idealista» di Sanders.
Ma i risultati di martedì hanno evidenziato debolezze strutturali che devono preoccupare non poco gli strateghi dell’ex first lady.
Innazitutto i giovani che sono la base più entusiasta di Sanders: «Anche se non mi sostenete — è stata costretta ad ammettere una castigata Hillary — io sostengo voi».
Ancora più sorprendente il dato che a Sanders ha assegnato un vantaggio dell’11% fra le donne (il 55% dell’elettorato).
Per puntellare la base femminile, Clinton negli ultimi giorni aveva arruolato figure importanti come l’ex segretario di stato Madeleine Albright e Gloria Steinem. A un comizio nel fine settimana, la Albright ha avvertito che «esiste un apposito girone dell’inferno riservato alle elettrici che non sostengono le candidate donne».
Mentre Steinem, decana del femminismo americano, è giunta a denunciare le giovani sostenitrici di Sanders che «lo fanno per seguire i propri ragazzi» ed è stata successivamente costretta a chiedere scusa per una non caratteristica caduta di stile.
Una spaccatura ideologico-generazionale che potrebbe presagire una insospettata vulnerabilità di Clinton proprio nell’elettorato femminile.
In campo repubblicano invece Donald Trump è riuscito ad imporsi nettamente sui suoi sei rivali, registrando il 35% dei consensi.
Poco dopo la chiusura dei seggi, quando le proiezioni sono diventate ineluttabili, il miliardario dalla carnagione paonazza e la chioma ossigenata è salito sul palco sulle note di Revolution (con buona pace di John Lennon che presumibilmente si è rivoltato nella tomba).
Ai suoi tifosi Trump ha promesso con caratteristica dialettica che «ci occuperemo di tutto e sarà meraviglioso» riassumendo il suo progetto di eccezionalismo populista a base di «farla pagare alla Cina, al Giappone e al Messico che ci tolgono tutti i soldi». Oltre agli «splendidi» muri di confine e a un esercito «così potente che nessuno oserà mettersi contro di noi», il copione ha offerto la consueta ricetta politica basata sulle sue «superiori doti di negoziatore» e, in un crescendo iperbolico, la promessa di diventare il «migliore jobs president mai creato da dio!».
La vera storia tuttavia si è sviluppata alle sue spalle, dove è infuriata la guerra di posizione fra gli altri pretendenti. John Kasich, il centrista governatore dell’Ohio che dopo l’Iowa alcuni davano per spacciato, ha raccolto il 16% dei voti piazzandosi secondo mentre Jeb Bush, il crociato integralista Ted Cruz e Marco Rubio si sono divisi il resto ottenendo ciascuno l’11%.
Carly Fiorina, Ben Carson e Chris Christie hanno chiuso la classifica con 7%, 4% e 2% rispettivamente – risultati che dovrebbero rappresentare l’anticamera del loro ritiro. Fiorina, infatti, è la prima, mercoledì sera, a “sospendere” la sua campagna.
Ma se pure il gruppo si assottigliasse, i risultati non hanno prodotto l’attesa indicazione su un candidato moderato che possa tenere testa all’”insorgente” Trump.
Il grande sconfitto di ieri è senza dubbio Marco Rubio, che fino all’antivigilia sembrava il delfino predestinato dell’establishment.
Ma una disastrosa performance nell’ultimo dibattito è costata al quarantaquattrenne senatore della Florida un precipitoso collasso nei consensi che ora riapre la partita fra lui, Bush e Kasich per diventare il plausibile anti-Trump auspicato dai dirigenti repubblicani per arginare le imprevedibili intemperanze populiste che molti temono potrebbero costare al partito una sconfitta a novembre.
fonte: Il Manifesto
http://ilmanifesto.info/sanders-e-primo-yes-he-can/