La sfida di Orbán all’Ue. Ma sul no ai profughi pesa l’incognita quorum
Ungheria. Oggi il referendum contro le quote volute da Bruxelles Dietro il voto il malessere del paese per la crisi economica
Carlo Lania
L’unica incertezza non riguarderebbe l’esito del voto, visto che la vittoria del No è data praticamente per scontata, piuttosto l’affluenza alle urne. Lo scontro sui migranti tra Viktor Orbán e l’Unione europea si giocherà tutto sul raggiungimento o meno del quorum, su quanti elettori si recheranno oggi alle urne per dire la loro nel referendum voluto dal premier ungherese contro le quote di profughi decise da Bruxelles e stando alle quali 2.300 richiedenti asilo dovrebbero essere trasferiti nel paese. Il quesito è di quelli che non lasciano molta scelta: «Volete consentire all’Ue di decidere sulla ricollocazione obbligatoria in Ungheria di cittadini non ungheresi senza il consenso del parlamento?» è la domanda che 8,3 milioni di magiari troveranno sulla scheda. Secondo i sondaggi l’83% di loro segnerà una croce sulla casella con scritto «No», contro il 13% dei favorevoli e un 3% intenzionato ad annullare il voto.
A preoccupare il governo ungherese è però proprio l’affluenza, dato che a 24 ore dal voto solo il 42% degli intervistati ha affermato di volersi recare alle urne. Pochi, dal momento che perché la consultazione sia valida occorre che venga superata la soglia del 50%, apparentemente ancora lontana. Per questo dopo mesi di campagna referendaria durante i quali contro i profughi è stato detto di tutto, dai sospetti di terrorismo all’accusa di mettere in pericolo la cultura cristiana del paese, fino all’ultimo Orbán non ha smesso di esasperare i toni: «Abbiamo difeso le frontiere dell’Ungheria e così anche quelle dell’Unione europea, fatto che in futuro sarà riconosciuto dai libri di storia», ha detto il premier riferendosi alla decisione di alzare muri ai confini con Serbia, Croazia e Slovenia e invitando i suoi connazionali a «mandare un messaggio chiaro a Bruxelles».
In realtà le barriere hanno fermato fino a un certo punto i migranti. Nonostante reti metalliche e filo spinato, infatti, dall’inizio dell’anno alla fine di agosto sono stati 26.759 i profughi provenienti dalla Serbia fermati in Ungheria, un numero in costante crescita nel corso dei mesi. Di questi, 8.413 sono stati intercettati dalla polizia nella fascia di 8 chilometri dalle frontiere istituita recentemente dal governo e all’interno della quale chi viene sorpreso è rispedito immediatamente oltre confine. «Un provvedimento che ci preoccupa molto, perché le persone che vengono fermate non hanno la possibilità di richiedere l’asilo ma vengono respinte verso la Serbia senza una procedura o una decisione formale» spiega Gábor Gyulai, direttore del programma asilo del Comitato Helsinki Ungherese che si occupa del rispetto dei diritti umani ed è l’unica organizzazione del paese che dà assistenza legale gratuita ai migranti. Insieme ad altre 22 Ong il Comitato ha lanciato la campagna «Questo è il nostro paese, invalida il referendum» con cui spera di contrastare «le politiche inumane adottate dal governo ungherese contro i rifugiati» grazie alle quali in sette mesi solo 290 richiedenti asilo si sono visti riconoscere una forma di protezione internazionale.
In realtà i migranti rappresentano solo una parte della partita che Orbán sta giocando contro l’Unione europea. Una vittoria dei «No», tanto più forte quanto più alta sarà la partecipazione al voto, lo rafforzerebbe ulteriormente, consentendogli di continuare con maggiore forza l’opera di contrasto delle politiche europee, non solo quelle sui migranti, confermandolo inoltre come vero leader del gruppo di Visegrad (oltre all’Ungheria, Polonia, repubblica Ceca e Slovacchia). «Orban vede il voto sui rifugiati come un modo per scuotere l’Unione europea», titolava qualche giorno fa il Financial Time. E Péter Krekó, direttore del think tank Political Capital, spiegava al giornale: «Ha già fatto capire di avere un’agenda europea che va al di là della questione migratoria. Orbán punta a essere una forza di trasformazione all’interno dell’Ue». Viceversa, il mancato raggiungimento del quorum segnerebbe una sconfitta pesante per la Fidesz, il partito del premier, a tutto vantaggio del movimento di estrema destra Jobbik che punta a vincere le elezioni del 2018. «Per questo motivo Orbán sta già dicendo che non è importante quante persone andranno a votare», prosegue Gyulai.
Timori dietro i quali si nasconde un malumore crescente tra gli ungheresi, molti dei quali sono costretti a emigrare in cerca di condizioni di lavoro migliori di quelle che trovano in patria.
Se è vero che l’economia tiene, grazie anche ai ricchi contributi elargiti dall’Unione europea (5,6 miliardi di euro nel 2015), è vero anche che i salari – in media l’equivalente di 350 euro al mese – sono troppo bassi perché gli ungheresi possano pensare al futuro con serenità. E molti, soprattutto i giovani, preferiscono cercare fortuna all’estero, proprio come i loro coetanei mediorientali o asiatici che il governo respinge ogni giorno. Negli ultimi cinque anni tra i 300 mila e i 500 mila magiari hanno scelto di vivere in un altro paese, prevalentemente in Germania, Gran Bretagna e Austria. Contraria a ogni forma di immigrazione, paradossalmente l’Ungheria si ritrova così ad aver bisogno dei migranti per supplire alla carenza di manodopera. Mancherebbero 22 mila informatici oltre a infermieri, cuochi, camerieri e addetti alle pulizie. Al punto che il ministro dell’Economia Mihály Varga a luglio aveva annunciato misure per attrarre lavoratori stranieri nel paese, salvo poi fare marcia indietro.
Dietro il voto di oggi c’è tutto questo ma, forse, anche il futuro dell’Europa. Una vittoria di Orbán darebbe ulteriore fiato anche ai nazionalismi presenti in molti stati alcuni dei quali, come Germania e Francia, prossimi a importanti scadenze elettorali, e rafforzerebbe l’idea che sia possibile ignorare le disposizioni dell’Unione europea. Con l’Ungheria che rischia di giocarsi qualcosa in più: «La paura degli immigrati creata ad arte dal governo avrà effetti negativi nella società e sulle future generazioni», conclude Gyulai. «Per decenni sarà impossibile avere una politica ragionevole sull’immigrazione che aiuti lo sviluppo del paese».
Fonte: Il Manifesto
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