Una coraggiosa e moderna lotta di braccianti immigrati

L’importanza della componente immigrata nei conflitti sociali che attraversano diffusamente la penisola, trova una ulteriore conferma nella lotta dei braccianti marocchini di Castelnuovo di Scrivia, in provincia di Alessandria, sviluppatasi l’estate scorsa. Una lotta per la dignità e contro condizioni di lavoro estreme che presenta aspetti rivelatori, chiamando in causa una parte significativa dell’attuale capitalismo italiano.
Ce ne restituisce alcuni tratti – non senza elementi di cronistoria – Antonio Olivieri, sindacalista che molti conoscono anche per il suo impegno in quanto presidente dell’associazione Verso il Kurdistan, da anni promotrice di iniziative per lo sviluppo dei diritti umani in Turchia. Tale realtà sostiene in particolare progetti di cooperazione nel Kurdistan turco (allo scopo di “interrompere la spirale di violenza, guerra e militarizzazione che coinvolge la regione”). Ma l’attività di Olivieri e delle tante persone con cui collabora, comprende anche corsi d’italiano per gli immigrati che vengono a lavorare nelle campagne, che si svolgono nei diversi comuni della Bassa Valle Scrivia. Nonché il sostegno a tutte le iniziative svolte dal Presidio permanente (un prodotto – come vedremo – della lotta di Castelnuovo), tra le quali spicca uno sportello legale rivolto agli immigrati stessi.
Ciò rende chiaro perché lui e altri sono diventati un autentico punto di riferimento per tutti gli immigrati della zona.
Puoi spiegare, a grandi linee, le condizioni dei lavoratori di cui stiamo parlando?
Sì, credo di poterlo fare prendendo a riferimento gli eventi dell’estate scorsa, quando un gruppo di lavoratori marocchini, donne e uomini, ha fatto emergere, nel profondo Nord, una realtà che nessuno conosceva, né poteva immaginare.
Castelnuovo Scrivia è un paese di poco più di 5 mila abitanti, al centro della Bassa Valle Scrivia, in provincia di Alessandria, sul confine con la Lombardia. La campagna, molto fertile, è coltivata in gran parte ad ortaggi e rifornisce i mercati di Torino e Milano, oltre a importanti aziende della grande distribuzione commerciale. Gli agricoltori della zona, da anni, affidano l’attività della raccolta a lavoratori stagionali, provenienti soprattutto dal Nordafrica.
Verso la fine del giugno scorso, quaranta donne e uomini marocchini, impiegati come braccianti presso l’azienda agricola “Bruno Lazzaro” di Castelnuovo Scrivia, hanno detto “basta!” alle condizioni in cui venivano costretti a lavorare: hanno incrociato le braccia ed hanno incominciato a presidiare i campi in cui lavoravano.
Le condizioni di vita e di lavoro di queste persone erano tra le più disumane, una sorta di schiavismo senza catene. Orari di lavoro insostenibili: si iniziava alle 6.30, si faceva una pausa di mezz’ora alle 14.30 e poi si tornava a raccogliere verdura sotto il sole cocente fin dopo il tramonto. Erano spesso costretti a dissetarsi bevendo l’acqua dei canali di irrigazione, acqua che arrivava direttamente dal torrente Scrivia!
Alcune donne erano alloggiate nell’azienda agricola in condizioni spaventose, dormivano in quattro, una sopra l’altra, tra rifiuti ed attrezzi da lavoro. Tutto questo per un salario che è eufemistico definire “da fame”: prima prendevano 5 euro all’ora, poi 4, poi solo sporadici acconti, infine più nulla. Da ciò, dovevano togliere anche le spese per il materiale che usavano per lavorare, come ad esempio, i guanti, gli stivali, il vestiario. Un aspetto inquietante della vicenda è il sospetto di una vera tratta di donne e di uomini gestita da organizzazioni criminali, tale da legare la Bassa Valle Scrivia ad alcune zone agricole del Marocco, da dove provengono questi migranti.
Visto che già sei entrato nel tema, ci piacerebbe che ci illustrassi le prime mobilitazioni, nonché la loro evoluzione…
Venerdì 22 giugno 2012, un giorno come tanti, alle ore 6.00 del mattino, inizia la rivolta. Per la prima volta nella loro vita, questi braccianti incrociano le braccia, pronunciando la parola “sciopero”. Da soli. Poi chiamano noi. E diventano immediatamente visibili a tutti. Allestiscono un presidio di tende e frasche nei pressi della cascina, istituiscono una Cassa di resistenza per tirare avanti, chiedono l’aiuto alla Cgil, ad associazioni, partiti, cooperative sociali. Serve tutto: cibo, vestiario, aiuti. Sono anche giorni di forte tensione, tra picchetti, invasione dei campi per bloccare i crumiri, blocchi stradali e delle merci, denunce. Nasce il Presidio permanente, realtà auto-organizzata, composta da lavoratori e solidali, scaturita dalla lotta dei braccianti marocchini dell’azienda agricola “Bruno Lazzaro”, che continuerà anche dopo i 74 giorni del presidio sulla strada, dando vita peraltro ad uno sportello legale.
Qual è stata la risposta della controparte?
Un primo accordo sindacale tra la Cgil e la Cia (Confederazione Italiana Agricoltori: quella di “sinistra”, che rappresentava l’azienda “Bruno Lazzaro”) viene stracciato dal padrone, quando, da Brescia, fa arrivare una cooperativa di raccoglitori indiani, la Work Service, fatta di presunti cottimisti che si alzano alle quattro del mattino per essere nelle campagne castelnovesi alle prime luci dell’alba. E alla data del 31 luglio, i primi quattordici lavoratori marocchini vengono messi alla porta. Licenziamento verbale. Motivazione ufficiale: scadenza del contratto. Ma il contratto non esiste, quello prodotto dal padrone all’Ispettorato del Lavoro reca firme false, come pure le buste paga dell’anno in corso. Crescono rabbia e tensione. In mezzo ai campi di pomodori, in quei giorni, qualcuno avrebbe voluto lo scontro tra disperati – marocchini contro indiani – senza però riuscirci. La lotta si rafforza attraverso gli scioperi, i blocchi, le manifestazioni.
Venerdì 3 agosto. Una bella e grande manifestazione sindacale, come non si vedeva da anni per entusiasmo e partecipazione, ha attraversato la città di Alessandria, con in testa i braccianti della Lazzaro, dietro lo striscione “No sfruttamento, no schiavismo”. Dopo un primo sit-in davanti alla Prefettura, il corteo ha raggiunto la sede della Cia. “Schiavi mai”, “Giustizia, giustizia”, “Lazzaro vergogna, Cia vergogna”: sono gli slogan più gridati durante il percorso e nel secondo sit-in. Parte una campagna di boicottaggio contro i supermercati Bennet, tra i principali clienti dei Lazzaro. Grande scandalo, i pennivendoli del padrone si stracciano le vesti, i più moderati sostengono che la campagna danneggia gli stessi braccianti marocchini. Niente di più sbagliato: Lazzaro ha già deciso: nei suoi campi lavorano solo gli indiani della Work Service, che da dodici erano ormai diventati una trentina.
Manifestazioni, tavoli in Prefettura, ispezioni della Direzione provinciale del Lavoro e, infine, un’inchiesta della Procura della Repubblica di Torino che, come primo atto, ha riconosciuto il permesso di soggiorno ai lavoratori marocchini irregolari a seguito della denuncia per riduzione in schiavitù, non hanno fatto desistere la proprietà. La quale ha alzato nuovamente il tiro, con l’obiettivo di disfarsi dei restanti lavoratori marocchini. A metà agosto, compare un cartello incollato con nastro adesivo su un palo della luce, sulla strada, davanti al presidio dei lavoratori: “Dal 17 agosto, i marocchini dipendenti dell’azienda agricola Lazzaro Bruno e Lazzaro Mauro cessano l’attività presso la suddetta azienda e non lavorano più”. Licenziamenti, con un tocco di discriminazione razziale: il massimo!
Come nelle piantagioni del primo Novecento, quando non c’erano diritti e rappresentanze sindacali e tutto dipendeva dalla volontà del padrone della terra, da un giorno all’altro, tutti e quaranta i braccianti della Lazzaro si sono trovati senza lavoro, ed oggi, nonostante le vertenze aperte per i salari non corrisposti e i diritti calpestati, rischiano di trovarsi davanti agli sfratti esecutivi e al “taglio” delle utenze, loro che – ironia della sorte – avevano denunciato il padrone per grave sfruttamento e riduzione in schiavitù!
Questo paragone con la realtà di un secolo fa è interessante. Però, a nostro avviso andrebbe sviluppato adeguatamente. A partire dal fatto che l’area geografica di cui stiamo parlando, conobbe la “modernità capitalistica” ben prima di altre parti d’Italia. E che quindi, le condizioni di lavoro estreme, non necessariamente rimandano al ritorno ad un passato di arretratezza. A noi sembra che, ieri come oggi, esse pongano questioni che non rimandano solo al rapporto con il singolo padrone, investendo un intero ciclo produttivo…
E’ vero. Queste lotte, che esplodono in punti nodali ed avanzati della produzione capitalistica, rappresentano la novità dell’attuale fase neoliberista. Non sono lotte arretrate, pur se reagiscono a condizioni di sfruttamento simili a quelle praticate ai primordi del capitalismo o nelle regioni del Terzo Mondo. Sono lotte che tendono ad investire non il semplice “padrone”, ma a far emergere l’aspetto di filiera dello sfruttamento: non a caso, si parte dalle campagne – con le condizioni lavorative sopra descritte, una situazione comune a parecchie realtà della zona – e si arriva ai trasporti, ai centri distributivi delle grandi catene commerciali, dove la popolazione lavorativa e le condizioni di sfruttamento sono simili, e dove – grazie all’utilizzo di pseudo-soci e di pseudo-cooperative, che gestiscono in appalto queste realtà – si possono ignorare diritti, contratti e leggi sul lavoro. Per arrivare, infine, ai supermercati e ai centri commerciali delle grandi catene distributive, i veri padroni della catena. Sono loro a determinare le condizioni di oppressione e di sfruttamento dei contadini, che a loro volta si rifanno sulla manovalanza bracciantile, sono loro che cedono volentieri in appalto trasporti e centri distributivi per tagliare i costi della manodopera, evadere leggi e contratti e concentrarsi così sul “core business” delle vendite dirette al consumatore, imponendo prezzi e condizioni, sfruttando attraverso mille contratti precari e part-time, i propri dipendenti diretti.
Ci piacerebbe che tu approfondissi il ruolo del sindacato. Nel tanto demonizzato secolo scorso, pur tra innegabili contraddizioni, esso animava le lotte dei braccianti, mentre oggi sembra assumere un ruolo ambivalente…
Siamo lontani dall’esperienza delle lotte bracciantili del secolo scorso. Ancora recentemente, leggevo un libretto scritto da un sindacalista, sulle prime lotte delle mondine nelle risaie del pavese e sul ruolo di guida esercitato dall’ allora Federbraccianti: c’è molto da imparare oggi da quelle lotte, da quei sacrifici, che hanno permesso grandi conquiste per tutto il mondo del lavoro!
Oggi, su questo versante, c’è, prima di tutto, una carenza di analisi: questi lavoratori, i migranti, non hanno bisogno di maggiore protezione, né di stare rinchiusi all’interno di un bozzolo; al contrario, proprio perché non hanno nulla da perdere, hanno bisogno di uscire allo scoperto, nonché di crescere nella coscienza e nella rivendicazione dei loro diritti. Sono loro che devono lottare in prima persona, contro le condizioni bestiali di sfruttamento e contro leggi ingiuste. E’ la lotta che rivendica ed afferma, è la lotta che rende protagonisti del proprio cambiamento.
C’è una inadeguatezza della pratica sindacale rispetto al mondo migrante. C’è il rischio che il sindacato diventi solo un utile strumento di pratiche assistenziali: rinnovo dei permessi di soggiorno, ricongiungimenti famigliari, vertenze individuali, assistenza in genere..
Prima hai descritto molto bene il rapporto tra le grandi catene distributive e la imprenditoria agricola. Secondo te, è possibile sviluppare dei legami tra i braccianti e quei lavoratori della logistica che, peraltro, hanno ottenuto un risultato considerevole con lo sciopero del 22 marzo e le cui battaglie hanno riguardato anche centri di distribuzione dell’agroalimentare?
I rapporti sono tutti da costruire, e ci vuole tempo per farlo. D’altronde, ci sono innegabili diversità tra i due comparti: il bracciantato è disperso, frammentato, spesso in piccole aziende, risente di una forte precarietà lavorativa stagionale. Le lotte che ci sono state sono importanti, ma sporadiche.
C’è ancora molta strada da percorrere. Occorrono analisi, lavoro d’inchiesta, costruzione di momenti di aggregazione, e bisogna ricreare occasioni di conflitto, perché esso è l’unico strumento in grado di produrre risultati per i lavoratori migranti. Si deve muovere dalla consapevolezza che siamo davanti non solo ad un problema sindacale, ma politico, che investe tutta la filiera dell’agroalimentare.
(www.panerose.it)