Turchia: il caporione stragista è Erdoğan

di Luigi Vinci. Non è vero che della strage di ieri 10 ottobre mattina ad Ankara che ha colpito soprattutto la parte di una manifestazione dove erano concentrati curdi legati al partito HDP e che ha fatto 128 morti e oltre 500 feriti, molti dei quali gravissimi, la responsabilità sia stata solo dell’ISIS, cioè dei suoi due killer suicidi carichi di esplosivo. Intanto testimonianze raccolte da partecipanti alla manifestazione indicano fatti che rendono più complicata la responsabilità. Intanto le esplosioni sono state precedute e accompagnate da attacchi con armi da fuoco da parte di altri individui. Poi, mentre le ambulanze stavano tentando di aprirsi la strada, la polizia ha brutalmente attaccato i manifestanti sparando lacrimogeni ad altezza d’uomo, e creando ulteriori feriti. Rappresentanti dei sindacati e delle ONG che avevano concorso all’organizzazione della manifestazione hanno quindi dichiarato che l’attacco è venuto da forze “fasciste” e che esso era stato anticipato dal ministro degli interni Altınok (questi alcuni giorni prima aveva affermato “le teste di coloro che resistono allo stato saranno sfracellate”). Le manifestazioni nelle città della Turchia avvenute in serata e stamani gridavano dunque a ragion veduta “stato assassino”. Lo stesso hanno dichiarato il presidente del partito kemalista CHP Kılıçdaroğlu e il copresidente dell’HDO Demirtaş.

E’ impossibile evitare, infatti, di far risalire quanto le responsabilità quanto meno politiche di questa strage, che ha colpito la totalità dell’opposizione democratica e civile, al presidente illegalmente plenipotenziario della Turchia Erdoğan. Se la strage del 22 luglio scorso nella città curdo-turca di Suruç, addebitata essa pure all’ISIS, uccise 32 manifestanti, ragazze e ragazzi pacifisti che volevano portare aiuti ai resistenti curdi di Kobanê, al di là di una frontiera resa invalicabile dalle forze armate turche, la strage del 10 ottobre ad Ankara ha ucciso manifestanti chiamati da un vastissimo schieramento di forze sindacali, di ONG, di gruppi della società civile, di media, di militanti dell’HDP e dei partiti di sinistra a rivendicare sia l’arresto della guerra di aggressione ai curdi attivata dal presidente Erdoğan che quello, anche unilaterale, della risposta armata a questa guerra attivata dal PKK.

Il significato reale della guerra di aggressione voluta da Erdoğan ai curdi di Turchia e ai loro profughi fuggiti in questi trentacinque anni nei villaggi del Curdistan iracheno è ormai ben noto, essendo stato fatto proprio dalla quasi totalità dei mass-media del pianeta quelli occidentali compresi. Non avendo raggiunto il partito di Erdoğan AKP, nelle elezioni del scorso giugno, la conquista dei due terzi dei seggi, necessari alla realizzazione di una riforma costituzionale di tipo presidenziale che avrebbe incoronato Erdoğan e avviano la semitrasformazione della Turchia in califfato (anzi non avendo l’AKP neppure raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi, a seguito del superamento da parte dell’HDP curdo e di sinistra della soglia di sbarramento del 10% dei voti), Erdoğan ha rotto la trattativa aperta da tempo con il PKK, orientata al riconoscimento dei diritti linguistici curdi e alla pacificazione, ed è passato all’attacco militare con aerei, elicotteri, carri armati, truppe di terra, reparti speciali delle forze di sicurezza contro i curdi di Turchia, i loro profughi in Iraq, il PKK, nella convinzione in questo modo di centralizzare sull’AKP la totalità del voto nazionalista e fascista turco e, terrorizzando la popolazione del Curdistan turco, di impedire all’HDP di entrare in parlamento;  cioè nella convinzione di riuscire così a conquistare i due terzi dei seggi parlamentari alle elezioni politiche anticipate indette per il 1° di novembre. Poiché, tuttavia, i sondaggi hanno detto fino a oggi che queste elezioni esprimeranno più o meno quanto già espresso dalle elezioni di giugno, Erdoğan è stato obbligato ad alzare sempre più il tiro. Ha messo sotto occupazione militare città, villaggi, interi territori del Curdistan turco, vi ha imposto il coprifuoco serale e notturno, vi ha sospeso l’erogazione dell’acqua e dell’elettricità anche per settimane, vi ha impedito l’entrata dei rifornimenti alimentari, vi ha impedito le attività ospedaliere, ha ordinato ad apparati di sicurezza e di polizia di sparare su tutto quel che nel corso del coprifuoco si muovesse alla ricerca di acqua o di cibo, cioè ha ordinato di uccidere gente inerme, donne, bambini.

E, guarda caso, a dargli una mano nel senso di questa drammatizzazione della situazione turca c’è stata la strage di Suruç: riguardo alla quale il PKK ha constatato sia la responsabilità di poliziotti legati all’ISIS che di figure del MİT (i servizi turchi di intelligence), ciò che lo ha obbligato, per impedire che la popolazione curda si scoraggiasse e si arrendesse, a reagire militarmente. Ma neanche questo livello raggiunto dalla drammatizzazione è parso funzionare dal punto di vista del futuro risultato elettorale dell’AKP. Né pare funzionerà granché lo spostamento fuori dai centri abitati del Curdistan dei seggi elettorali. Non solo la popolazione curda di Turchia si è organizzata per resistere, ma anche una parte della popolazione turca sta reagendo. La Turchia non è più quella di una volta, inquadrata nelle città dai militari e nelle campagne dai mullah. Le mobilitazioni del maggio del 2013 di giovani, donne, sindacati, popolo contro la distruzione a Istanbul dello storico Gezi Park per costruirci un centro commerciale, represse nel modo più brutale dalla polizia, le continue restrizioni delle libertà politiche e del diritto di manifestare, gli arresti e le condanne a carico di centinaia di giornalisti della stampa indipendente e laica, le sospensioni e gli arresti arbitrari di centinaia di sindaci e di amministratori curdi, hanno fatto maturare una sensibilità democratica e civile di massa nelle città turche. Dunque Erdoğan si è sentito nella necessità di drammatizzare ulteriormente una situazione già altamente drammatica. Dunque la strage di Ankara.

Intelligentemente il PKK ha sospeso unilateralmente le proprie operazioni militari. Ritengo che esso aveva già deciso di farlo, e di dichiararlo in risposta alla manifestazione di Ankara. Le organizzazioni curde non sono l’Armata Brancaleone. E ritengo probabile che i burattinai della drammatizzazione ciò sapessero e che abbiano deciso la strage sperando che il PKK avrebbe rinunciato alla sospensione delle operazioni militari.

Né si può escludere che questa strage possa servire a Erdoğan anche in un altro senso. Se gli incrementi attuali e quelli eventuali futuri della drammatizzazione constatassero che elettoralmente continua a non cambiare granché, essi potrebbero tuttavia giustificare il rinvio delle elezioni a un momento tranquillo e cioè a tempo indeterminato. On s’engage et puis s’on voit, ci si impegna e poi si vedrà, diceva Napoleone quando programmava un’azione militare.

E d’altra parte Erdoğan non può fermarsi. Gli è impossibile accettare una sconfitta elettorale. Si muoverà necessariamente, ritengo, in modo sempre più feroce. Non che sia impossibile fermarlo, ma non è certo che ci si riesca. Potrebbe dunque abbattere un aereo russo che abbia sconfinato sulla Turchia di qualche metro, può attaccare il Rojava liberato dai curdi siriani, e giustificare così il rinvio delle elezioni. Tra le ragioni, accanto al suo fondamentalismo reazionario e alla sua megalomania, della sua estrema determinazione c’è pure che la corruzione, gli affari sporchi, le ruberie sue, dei suoi sodali politici stretti e della sua famiglia sono ormai ben note in Turchia, ne hanno trattato molti suoi media (pagando un prezzo salatissimo), sono state denunciate dalla totalità degli altri partitiparlamentari, hanno anche aperto fessure nel suo AKP. Se egli non vincerà le elezioni, o non riuscirà ad affermare in altro modo il suo potere personale, è finito, c’è la fuga dalla Turchia o il carcere.

Ho insistito nell’esistenza di una responsabilità dello stesso Erdoğan nelle stragi di Suruç e di Ankara. Può sembrare eccessivo. Ma il fatto è che la realtà istituzionale turca non è di tipo occidentale, anche se si sforza di somigliargli.

Intanto, libertà politiche, democrazia parlamentare, stato di diritto, separazione dei poteri dello stato, forze armate e di polizia che non fanno politica e rispondono a parlamento, governo, leggi dello stato sono in Turchia poco più che vernice, poco più che finzioni pronte a essere aggirate da un complesso reale di forze istituzionali autogovernate e organicamente antidemocratiche e razziste: una magistratura in mano quasi tutta, a partire dalla Corte Costituzionale, a giudici al servizio delle forze armate e, in questo momento, del patto che unisce forze armate ed Erdoğan, forze armate storicamente golpiste, apparati di polizia e servizi di intelligence criminali (tali servizi, per esempio, sono il MİT un cui agente assassinò tre militanti curde a Parigi nel gennaio del 2013).

In secondo luogo, tutti questi apparati e istituzioni dello stato sono frazionati in bande, e ogni banda ha i suoi collegamenti orizzontali, ovviamente ben coperti, con bande delle altre realtà. Forze armate e MİT inoltre hanno rapporti con strutture o pezzi di strutture a loro analoghe di altri paesi. Governi, partiti di governo e parlamenti non ne sanno niente come tali, ma loro figure e gruppi sì. Lo stesso AKP è diventato rapidamente qualcosa di simile; suoi pezzi cioè e soprattutto, ovviamente, Erdoğan e la sua cerchia hanno sviluppato rapporti stretti con pezzi delle forze armate e del MİT, sia, avendo sviluppato rapporti stretti fin dall’inizio con al-Qaeda/al-Nusra e poi con l’ISIS, anche con queste realtà o con loro pezzi.

Come scrive meglio di me il corrispondente del Corriere della Sera da Washington Guido Olimpio, giornalista serio e, anche grazie al luogo dove opera, ben informato sulla realtà della Turchia, della Siria, della Palestina, attentati e delitto di Parigi, se non ispirati dai vertici di governo e statali lo sono stati dalle “molte ali” che si muovono per esempio sotto la sigla del MİT. Si tratta in genere di “personaggi non sempre ben delineati, alcuni vicini al potere, altri ai suoi nemici” (alla sua destra: militari, fascisti). “Figure in grado di reclutare “lupi grigi” (i razzisti del partito MHP), killer a pagamento o anche jihadisti, strumenti perfetti per liquidare e depistare”. Giova aggiungere a quest’analisi perfetta che vertici militari, del MİT, della magistratura, del governo nonché Erdoğan e la sua banda non solo hanno connessioni di vario tipo con questa realtà, ma dispongono di tutte le capacità necessarie a tenerla sotto controllo… o lasciarla fare. L’ISIS in specie, che ha gruppi che vanno avanti e indietro tra Turchia e Siria, intende osteggiare ogni possibilità di ripresa di rapporti tra Turchia e PKK, e preme all’uopo su Erdoğan… il quale ci sta.

A cementare al meglio tutto quanto sono, tanto per cambiare, gli affari più sporchi. Media turchi hanno recentemente documentato il trasporto di petrolio dalle zone controllate dall’ISIS alla Turchia. I redditi degli alti ufficiali delle forze armate turche e dei capi del MİT sono solo in minima parte i loro salari, sono invece in parte congrua i proventi del traffico di eroina o di profughi dall’Afghanistan o dalla Siria o dall’Iraq all’Europa. Né vedo perché gli alti ufficiali e i capi del MİT non riescano prendersi anche loro qualcosa delle rendite petrolifere in questione. D’altra parte, come dicevano i nostri antichi, che senz’altro se ne intendevano, altrimenti non avrebbero realizzato un grande impero, pecunia non olet, il denaro non puzza.

Mi permetto infine un’avvertenza: ritenere che i grandi poteri e apparati dell’Occidente, Amministrazione degli Stati Uniti, NATO, CIA, vertici esecutivi europei, Interpol, Europol, ecc. ecc. di tutto quanto sta qui sopra non sappiano nulla sarebbe un’ingenuità colossale.