La paura fa novanta, dicevano i nostri vecchi, e nel nostro caso non c’è miglior proverbio. Il Manifesto di ieri ci racconta come la paura di Renzi di perdere un altro referendum abbia consigliato il governo ad accettare la cancellazione dei voucher e la modifica delle norme sul sub-contratto richiesti dalla CGIL, che ha così vinto una importante battaglia per il “ritiro senza combattere” del governo.
Il referendum sul lavoro avrebbe diviso il paese e per evitarlo, il presidente del consiglio annuncia in conferenza stampa il decreto governativo sulla cancellazione dei voucher. Gentiloni veste i panni dello zio che vuole evitare liti in famiglia, si preoccupa per noi cittadini irrequieti, capaci, appena ce ne viene data l’occasione, come con il referendum costituzionale, di andare in massa alle urne a bocciare le grandi riforme del renzismo.
Gli slogan sono castelli di carte e bisogna affilare le armi della realpolitik perché la verità è che il governo Gentiloni teme la sua ombra. In fondo se non proprio un voucherista questo è un presidente con contratto a tempo determinato e operando per conto di Renzi ha voluto togliere di mezzo un referendum sul lavoro che avrebbe unito, contro il jobs act, il paese che lavora e quello che il lavoro non ce l’ha.
Le ragioni del dietrofront sono evidenti. Per la politica del giglio magico è un momentaccio, i sondaggi non sono buoni, le scissioni pesano e pur continuando a tenere lo scettro del comando (vedi la girandola delle nomine nelle società pubbliche), quando si va al voto (amministrativo o referendario) Renzi viene respinto e sconfitto. Dunque meglio evitare il popolo dei referendum anche a costo di clamorosi testa-coda come questo sui voucher. Che proprio Gentiloni da palazzo Chigi più volte aveva difeso pubblicamente.
Per salvarsi dalla seconda probabile batosta, organizzata dalla Cgil con la raccolta di tre milioni di firme, mentre brucia ancora la sconfitta che i famosi gufi gli hanno inflitto guidando la difesa della Costituzione, Renzi chiama il suo presidente del consiglio a smentirsi e all’ingrata parte dell’attore che recita due parti in commedia. «L’Italia non aveva bisogno nei prossimi mesi di una campagna elettorale su temi come questi» dice Gentiloni. Un’affermazione impegnativa anche perché ora attendiamo di conoscere su cosa sarebbe invece utile fare una campagna elettorale, visto che il tema del lavoro non ne sembra sufficientemente degno.
Oltretutto i referendum abrogativi sono fatti apposta per misurare i sì e i no dei cittadini che si dividono (o si uniscono, dipende dai punti di vista) per fare sentire la loro voce che, nella tradizione referendaria italiana, in genere è una voce che cancella leggi arretrate e spinge il paese verso frontiere più avanzate nei diritti civili e sociali.
Resta la soddisfazione per una battaglia sacrosanta, vinta dalla Cgil e condivisa dalla sinistra contro riforme fasulle almeno quanto il riformismo da cui nascono.
La rottamazione dei voucher certo non cura la malattia strutturale della precarietà, oltretutto l’esperienza consiglia prudenza perché aspettiamo di vedere con che cosa verranno sostituiti. Troppe volte i contenuti delle vittorie referendarie sono stati negati dalle leggi successive. Ma oggi incassiamo il risultato e un terreno di gioco più favorevole ai diritti dei lavoratori precari.