“Super Precario”

Pubblichiamo una novella scritta da Claudio Baricelli, scrittore che collabora con Nordmilanotizie. Questa novella ha uno sfondo sociale e, anche se ambientata in un periodo lontano dal nostro, è tristemente attuale. Mario Piromallo

di Claudio Baricelli

                                                Mandelay……………………………….

Nel bar non succedeva nulla. Nel primo pomeriggio nel caldo rovente del mese di luglio non c’erano altri avventori oltre il boscaiolo e il barista.

In quella stagione il taglialegne era disoccupato, passava le giornate là sperando di trovare un ingaggio come manovale . L’oste gli faceva credito per le bevute e il tabacco, si fidava. Fin quando egli era in grado di ricordarsi le sue consumazioni lasciava che fosse lui stesso a tenere i conti. Qualche volta si dimenticava e interveniva il titolare a tirare le somme.

Il legnaiolo disoccupato aspettava e beveva birra in lattina. Un barattolo costava un euro e trenta.

Quando cominciavano ad arrivare i paesani era ormai notte, la gente lavorava in campagna fino a buio. Il paese era una frazione di poderi sparsi e il suo centro consisteva in quattro case separate dalla  provinciale, l’ufficio postale, un emporio e il la mescita, che fungeva anche da rivendita di sali e tabacchi e da sala da ballo il sabato sera dall’autunno alla primavera.

A memoria d’uomo da quelle parti si era sempre ballato per le feste ,la musica che andava di più era il liscio.

Il bosco si tagliava d’inverno. Eccetto qualche lavoro di zappatura o taglio dell’erba in maggio da giugno a settembre l’unica possibilità di impiego era trovare qualche giornataccia nell’edilizia.

Pala & piccone, gettate di solai, blocchetti di tufo bagnati, betoniera carrette e paiole di malta da sollevare al primo piano dei ponteggi. Le ditte lo chiamavano solo quando c’era da farsi un culo extra ordinario.

Il cantiere non gli piaceva. C’erano la polvere e il rumore e doveva adattare il suo ritmo produttivo a quello degli altri.

Alla macchia non gli rompeva i coglioni nessuno, se ne stava da solo per otto ore a sramare i tronchi o far ruzzolare a valle la legna. Quando doveva prender fiato si fermava, rollava una sigaretta e si guardava attorno per qualche minuto, quando aveva fame mangiava. Le giornate erano brevi e non potevano farlo lavorare più di otto ore, alle quattro e mezza era buio. Per fare orario pieno cominciava alle sette e quaranta, a pranzo sostava solo il tempo di mangiare un piatto di spaghetti freddi, bere un litro di caffè solubile e farsi un paio di tabaccate.

Era un mestiere faticoso ma pulito, non tornava a casa lercio di calce o di cemento , incrostato di polvere di calcinacci , rintronato dal rumore di nove orette di betoniera. Detestava servire i muratori. Quello che gli dava più fastidio era il dover lavare gli attrezzi che essi avevano usato, a sera, fuori tempo retribuito. Questa abitudine lo faceva incazzare. Le sua mescola quadrata la puliva con un pezzo di mattone, per ultima e la pulizia del suo corpo veniva dopo quella degli utensili.

Della legna l’unico problema era che era un lavoro estremamente pesante.

In solitudine non doveva sopportare di interagire con alcuno, si annoiava e finiva col lavorare per due. La sera arrivava velocemente ,quando pioveva era di riposo e stava  principalmente attorno alla stufa e a fare legna da ardere per casa. Mantenere un ambiente caldo era fondamentale.

L’umidità del bosco era micidiale , tranne quando tirava la tramontana si sudava e spennatava vestito leggero. Il trucco era non fermarsi mai, il sudore non doveva ghiacciarglisi addosso.

La mattina presto nei posti esposti a nord, vicino ai fossi, sul legname tagliato c’era il ghiaccio.

Il fuoco era la divinità principale a cui dedicava il suo tempo libero, a venticinque anni aveva già i reumatismi. Durante il taglio rimaneva completamente sobrio, darsi alla macchia richiedeva un attenzione estrema.

D’estate si lasciava andare , rilassato e annoiato dall’inattività pressoché totale si dava al bere con un certo successo e una certa soddisfazione. Quell’anno proprio non riusciva a trovare qualcuno che lo assoldasse neanche per scavar buche. Era ormai quasi agosto ed era senza un euro, i debiti cominciavano ad essere troppi.

Fuori dall’esercizio c’era una pergola di glicine, si stava una meraviglia,c’era sempre vento.

Sedeva con la lattina e guardava la strada e le ginestre sul pendio di fronte,il cielo tra le foglie risaltava assolutamente azzurro. Ogni tanto il barman usciva a fumare e scambiavano qualche parola. Quel giorno era particolarmente assillato dal pensiero dei soldi che gli doveva, gli espose il problema. L’uomo trovò una soluzione che sembrava assurda, lo rassicurò dicendogli di non preoccuparsi perché tanto qualche lavoraccio presto o tardi l’avrebbe rimediato. Lui si lamentava che non aveva niente da fare. L’altro scansò la tenda ed entrò nella penombra del suo locale e ne

riuscì con in mano una paletta per schiacciare gli insetti.

Gli propose il contratto, constatando che tanto stava comunque là fino a chiusura. L’offerta era onesta, ogni cento mosche fatte fuori un euro o una birretta , a scelta, almeno non avrebbe ulteriormente allungato il suo conto. Il cliente accettò, il gestore si raccomandò di non sfasciare né la paletta né i tavolini. Si impegnò alacremente,nel giro di mezz’ora c’erano mosche spiaccicate dappertutto. La situazione era volutamente comica e surreale per entrambi,una specie di scherzo.

Verso l’ora di cena mosche e mosconi si erano ritirati, erano in collina e non c’erano zanzare, un vero peccato. Aveva totalizzato quattro euro di guadagno. Alle nove arrivò un agricoltore  a prendere un caffè e notò la situazione, domandando alla donna che stava dietro il banco,dopo lo zucchero, se l’operaio forestale si fosse ammattito.

Quella rispose che suo marito l’aveva assunto come disinfestatore perché non rimediava niente da fare ed era al verde, anzi : in rosso.

Il contadino svuotò la tazzina, prese una birra dal frigorifero e la offrì al neoassunto domandandogli come andava quella faccenda, se aveva raggiunto la quota di dieci euro o guadagnato un premio produzione, gli suggerì di mettere acqua zucchero qua e là per procurarsi gli straordinari notturni e chiedere paga doppia.

Risero, non c’era onestamente altro da fare.

Il coltivatore gli parlò di un campo che doveva spietrare per poterne lavorare di nuovo la terra in settembre, gli disse che poteva impiegarci anche un mese precisando che era meglio andarci la mattina presto per via della calura perché non voleva trovarlo collassato tra i mucchi di sassi.

L’opera consisteva nello svellere con un picco i sassi che erano affiorati in superficie dopo la prima aratura e ammucchiarli di modo che si potessero in seguito caricare sulla pala dietro al trattore e portare via. Quelli più grossi, impossibili da spostare li avrebbero legati con un cavetto di acciaio e disseppelliti al momento di caricare i più piccoli che lui avrebbe nel frattempo ammontinato.

Si accordarono per sei euro all’ora di salario. L’operaio ebbe cinquanta soldi di anticipo, specificò che gli servivano tre giorni per smaltire la sbronza. Il committente lo squadrò e sentenziò che forse ce ne sarebbero voluti anche quattro o cinque. L’affare fu concluso.

Quando il padrone si fù allontanato il futuro spietratore  si precipitò ad anticipare un deca sul saldo e offrì da bere al suo precedente datore di lavoro. Quello rispose che gli offriva un giro. Versò per sé mezzo whiskey e gli spillò una media, mentre bevevano il debitore sentenziò solennemente che aveva un impegno e doveva licenziarsi. “ Ci ho un ettaro da spietrare a mano “

Il barista tossì il liquore che gli era andato di traverso per la risata che gli era partita. “ Meno male, non c’è più una mosca viva nel raggio di chilometri”. Si salutarono.

Tre giorni dopo, all’alba, nella vallata si sentiva l’eco del rumore delle pietre lanciate che cozzavano  le une sulle altre e una voce che cantava “Like a rolling stone”, tra una bestemmia e l’altra.

KMB  18/02/2021