Strage di Bologna: ricordiamo le vittime

immagine da La Repubblica

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Strage di Bologna, il racconto della sopravvissuta: “Quel boato mi tormenta ancora”

Dopo 35 anni Silvana Ancillotti ricorda l’esplosione nella sala d’aspetto della stazione. Quel giorno  era con due amiche  e la piccola Angela, tutte morte. Era la più vicina al tritolo ma nessun giudice ha mai ascoltato il suo racconto

dal nostro inviato EMILIO MARRESE

MONTESPERTOLI (Firenze). Silvana era seduta a pochi passi dalla bomba. “Mi ricordo tutto. Tutto. Eravamo sedute tutte assieme. Maria no, era in piedi lì accanto. Mi ricordo il boato. Un grande boato. Ho chiamato Verdiana. Non mi ha risposto. Sono svenuta. Poi mi sono risvegliata sotto le macerie. E ho visto Verdiana e la bambina, Angela. Erano di spalle. Non si muovevano. Verdiana forse aveva provato a proteggerla con il suo corpo. Maria non c’era più. Ho strillato, ho chiamato i soccorsi. “Aiutate le mie amiche…””.

Molto probabilmente nessun altro sopravvissuto alla strage del 2 agosto 1980 era più vicino di Silvana Ancillotti ai ventitré chili di esplosivo che fecero saltare in aria la sala d’aspetto della stazione di Bologna. Perché di Maria Fresu, mamma della piccola Angela, fu ritrovato, solo alcuni mesi dopo, appena un brandello di corpo sotto un treno: lei, ne dedussero, si trovava praticamente sopra alla bomba che, unica tra le vittime, la disintegrò. Avevano poco più di vent’anni, andavano in vacanza. Silvana si salvò, incredibilmente. Non ha mai testimoniato a nessun processo. Nessun giudice le ha mai chiesto se avesse visto qualcosa prima delle 10.25. Non esclude che possano aver raccolto una sua deposizione a caldo, ancora in ospedale, ma nemmeno lo rammenta. Tutto il resto sì. E ancora oggi, per la prima volta trentacinque anni dopo, non riesce a raccontarlo se non con un fil di voce, inghiottendo lacrime, strappandosi parole che si spezzano continuamente in gola. Non ne aveva mai voluto parlare. Ha accettato con molta reticenza e sofferenza, pentendosene anche a metà strada tra Poggibonsi, dove vive, e Montespertoli, dove vivevano i Fresu. Il marito ed Elena Bivona, la nipote di Verdiana, l’hanno convinta e sostenuta a fare fino in fondo questo viaggio di pochi chilometri che le è sembrato lunghissimo. E per la prima volta, dopo trentacinque anni, è andata al cimitero dove riposano, alle porte del paesino, le Fresu. Maria, 24 anni e Angela, nemmeno tre. Due lapidi bianche sulla parete, la stessa incisione: vittime della strage di Bologna. “Ed era meglio se non ci andavo” confessa Silvana. “Ogni volta che ci penso è come se fosse successo ieri, ritorna subito tutto indietro. È ancora tutto troppo forte, vicino. Col tempo, chissà…”.

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Non sarà presente oggi alla commemorazione a Bologna. “Non me la sento. Ci andai solo il primo anno. Troppo dolore, non ci sono più tornata a Bologna. L’anno prossimo  –  aggiunge quasi per scusarsi  –  magari troverò la forza, chissà”.

Silvana oggi è una bella signora di quasi sessant’anni. A Bologna rimase ricoverata un mese, dopo l’attentato. Conserva la pagina di giornale con la sua foto a letto e l’articolo. “Chiesi al giornalista notizie delle mie amiche, non sapevo ancora niente”. Non sembra all’apparenza aver dovuto sopportare conseguenze fisiche rilevanti, dentro invece è rimasto tutto rotto. Ha avuto una famiglia, un figlio, una vita. Pur segnata. Quella dell’unica della comitiva che tornò a casa. “Ero amica soprattutto di Verdiana, molto amica, ci conoscevamo da tanti anni, andavamo a ballare insieme e ogni tanto veniva anche Maria. Mi ricordo bene sua figlia, Angela. Una bambina dolcissima, buona, molto vivace”. Operaie nel settore tessile nella zona di Empoli, come tante altre ragazze della zona, avevano programmato un paio di settimane di villeggiatura: Garda, Venezia, Trentino. “La sera prima della partenza avevamo dormito tutte a casa dei Fresu. Il fratello di Maria ci accompagnò all’alba alla stazione di Empoli a prendere il treno. Me lo ricordo tutto, il viaggio. Eravamo contente, eravamo giovani”.

Bellino Fresu, quel fratello, vive ancora nella stessa casa, da solo. I genitori non ci sono più e con le altre sei sorelle i rapporti si sono deteriorati. Fa il contadino e bada al gregge come il babbo Salvatore, che dalla Sardegna portò tutti in Toscana su questi ventidue ettari tra le colline, comprati grazie agli incentivi statali. Bellino è appena tornato dai campi al tramonto (“Ci avevo da battè l’orzo”), è fresco di doccia, offre un bicchiere di bianco aspro, neanche lui ha voglia di ricordare. Nel casolare, quasi diroccato, non si vedono in giro foto di Maria e Angela. “Eravamo una famiglia unita, ora siamo una famiglia devastata. Ci siamo sfaldati, dopo quel fatto. Il babbo aveva detto a Maria di lasciare a casa la bambina, era come un’altra figlia. È mia e la porto con me, gli rispose lei”. Maria era tornata a vivere nella casa di famiglia quando era in attesa di Angela, rompendo la convivenza a Empoli col futuro padre della bambina, anche lui sardo. Nessuno lo ha mai più visto.

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