Usa, primi anni ’60. C’erano i macchinoni color pastello, il rock’n’roll, le gonne scampanate, le speranze suscitate dalla presidenza Kennedy. Happy days, quindi. Ma non per tutti: visto che stati del Sud come la Virginia, a dispetto della legislazione nazionale e federale, continuava ad applicare norme rigidamente segregazioniste. C’erano quindi scuole separate per neri, posti sull’autobus separati, fontanelle e toilette separati. Sono i simboli evidenti e plateali di una discriminazione razzista che ben più profondamente è sociale, economica, culturale. Le tre donne di cui racconta Il diritto di contare (un titolo italiano per una volta tanto forse migliore del più didascalico Hidden Figures originale, che gioca sul doppio senso di contare che allude alla professione delle protagoniste oltre che al diritto di aver riconosciuto il proprio valore e talento), assunte alla Nasa con mansioni impiegatizie, devono fronteggiare una doppia discriminazione, scontare una doppia colpa: sono donne, e sono nere, in un mondo di maschi bianchi in camicia bianca. Ma si dà il caso che le tre protagoniste non siano tre impiegate tra le tante, confinate in un edificio periferico nella sala delle colored computers (le calcolatrici colorate sarebbe una traduzione simpatica che non renderebbe il portato spregevole della discriminazione), ma tre veri talenti che lottano per emergere, per vedere riconosciute e valorizzate le proprie capacità, per portare il proprio contributo a un’impresa che entrerà nella storia dell’umanità.
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