Somoza: la guerra delle valute

Alfredo Somoza

La guerra delle valute

Pubblicato: 8 aprile 2023 in Mondo
Tag:currency wardollaro e yuasnguerra valutepolitica monetaria Cinayuan cinese0

Da anni ormai se ne parla e, secondo alcune leggende metropolitane, leader come Gheddafi o Saddam Hussein sarebbero stati deposti proprio per questo motivo: evocare l’abbandono del dollaro USA come moneta di riferimento internazionale, più che un’ipotesi percorribile, finora ha avuto il valore di una provocazione. Qualcosa, però, sta cambiando. Le riserve monetarie globali, che nel 1970 erano costituite per l’80% da dollari, oggi vedono la moneta statunitense prevalere sì, ma con una quota ridotta al 60%. Questo per via della nascita dell’euro, che ormai costituisce il 20% delle riserve globali, della “tenuta” di sterlina e yen, che hanno conservato il loro peso, e dell’ingresso in classifica dello yuan, la valuta cinese.

Intanto, a livello globale le transazioni commerciali si effettuano ancora per l’88% in dollari. Tuttavia, la banca centrale cinese ha calcolato che le transazioni in yuan nel 2022 hanno superato i 6mila miliardi di dollari, facendo segnare il quinto anno consecutivo di crescita dell’uso della moneta asiatica. Per Pechino, far acquisire un ruolo importante alla propria valuta è una priorità di politica estera, finalizzata a confermare il ruolo centrale conquistato nell’economia-mondo. Per scalzare progressivamente dagli scambi commerciali le banconote verdi di Washington, la migliore arma in mano alla Cina sono i rapporti con i Paesi suoi clienti in Asia, America Latina e Africa. Questi Paesi accettano volentieri valuta cinese, potendo pagare a loro volta in valuta locale che, di solito, non viene accettata da nessuno. È quello che sta già succedendo con l’Argentina, grande fornitore della Cina, che ormai nelle sue riserve valutarie ha l’equivalente di 20 miliardi di dollari in yuan.

Il risultato più significativo della strategia cinese è stato raggiunto a fine marzo, con la firma di un accordo con il Brasile che estromette il dollaro dalle transazioni tra i due Paesi (nel 2022 pari a circa 150 miliardi di dollari). Per consentire l’uso dello yuan negli scambi tra i due giganti è stata creata una camera di compensazione presso la Banca industriale e commerciale cinese: la banca garantisce agli imprenditori brasiliani l’immediata conversione in real dei loro guadagni se decideranno di concludere affari in yuan.

L’altro Paese con il quale la Cina conduce scambi monetariamente alla pari è la Russia, per ovvi motivi, dall’inizio della guerra in Ucraina. Ed è così che, per l’interesse a consolidare un rapporto commerciale o per necessità, come nel caso della Russia sotto sanzioni, lo yuan ha cominciato a diventare moneta di riferimento per i Paesi Brics e, di conseguenza, per quel vasto mondo fuori dall’Occidente che ha nella Cina il suo vitale interlocutore economico.

Al momento, il ruolo del dollaro negli scambi internazionali non è in discussione. Per lo yuan la quota del 7% raggiunta nel 2022 è un segnale di forte crescita, quasi il doppio rispetto all’anno prima, ma la strada rimane ancora lunga e resta impervia: come può diventare moneta di riferimento la valuta di un Paese nel quale la Banca centrale non è indipendente dal governo e la politica monetaria è asservita ai bisogni immediati dello Stato, che da anni tenta di nascondere diverse bolle pronte a scoppiare? Ma la Cina ci ha già stupiti, dimostrando la possibilità di convivenza tra un regime socialista e spietate logiche di mercato, salvo scoprire che dietro i giganti dell’industria e della finanza cinese c’è sempre, ben visibile o nascosto, lo Stato. La sfida per fare entrare lo yuan nel ristretto gruppo delle valute internazionali ha valore sia simbolico sia pratico. Da un lato, la Cina vorrebbe confermare di essere diventata una potenza globale, dall’altro comincia a prendere le distanze dall’economia degli Stati Uniti, perlomeno tentando di interrompere una storica relazione simbiotica.