Pubblicato: 30 gennaio 2018 in Mondo
Tag:economia offshore, evasione fiscale, paradisi fiscali, segreto bancario, svizzera segreto bancario
Un paio d’anni fa sembrava fatta: il segreto bancario era finito, o almeno questi erano i titoli sui giornali. E le notizie avevano un fondamento apparentemente solido. Ben 148 Stati, infatti, hanno aderito agli standard promossi dall’OCSE in materia di trasparenza bancaria e di scambio automatico di informazioni per porre fine all’esistenza dei paradisi fiscali. In questo modo si andava a intaccare l’impunità offerta dai Paesi dove non soltanto si schermano i conti degli evasori fiscali, ma anche delle organizzazioni criminali, dei gruppi terroristici e, ultimo ma non meno importante, delle multinazionali che finora sono riuscite a produrre utili non tassati nei Paesi in cui operano. Un variegato insieme di soggetti che secondo il Boston Consulting Group è riuscito ad accumulare nelle banche offshore 10mila miliardi di dollari (ma a giudizio di alcuni studiosi la cifra sarebbe ancora maggiore, più vicina ai 30mila miliardi).
In questi anni dal mondo dell’offshore sono giunte fughe di notizie che hanno permesso di ricostruire una mappa complessa: dalla Lista Falciani, che prende nome dall’impiegato della banca HSBC che carpì i segreti di 130mila clienti delle banche ginevrine, ai Panama Papers, fino ai Paradise Papers, la gigantesca fuga di dati delle società Appleby e Asiaciti specializzate nell’elusione fiscale, con sede a Panama. Ogni volta ci si stupisce per l’intensità e l’importanza del fenomeno. Ma si tratta solo di fiammate che spesso si spengono con la condanna del denunciante e raramente del denunciato.
La novità di queste settimane è la marcia indietro della Svizzera per quanto riguarda il segreto bancario, peraltro già formalmente abolito. La grande cassaforte elvetica aveva sottoscritto gli standard internazionali e firmato una serie di accordi bilaterali per fornire informazioni sui cittadini stranieri che possiedono conti nella federazione. La restaurazione è stata però veloce. In Svizzera, infatti, si sta ora discutendo per reintrodurre il segreto bancario a vantaggio dei residenti nel Paese, anche se stranieri, e le banche potrebbero essere autorizzate ad avvertire i clienti in caso di indagini in corso sul loro conto. Questo primo cedimento testimonia la preoccupazione per il danno subito dal settore bancario elvetico da quando il Paese è diventato “collaborativo”.
Ma la situazione è ancora più complessa se si pensa che nel mondo ancora 37 Paesi possono opporre un veto totale alla richiesta di informazioni bancarie. Altri ancora, pur avendo firmato gli accordi OCSE, prendono tempo. Alcuni creano scorciatoie per i correntisti, fornendo nel pacchetto anche cittadinanze di comodo. Insomma, è una giungla che coinvolge Paesi falliti, storiche roccaforti del segreto bancario e colonie tropicali di Paesi europei, senza dimenticare gli Stati USA del Delaware, del Nevada, dal South Dakota, della Florida. Gli Stati Uniti si confermano infatti come il più grande paradiso fiscale mondiale fin dai tempi di Pablo Escobar.
La verità è che il mondo delle banche offshore è troppo importante per l’economia globale perché lo si cancellare. Quella che viaggia nei meandri della finanza occulta è una cifra vicina al 10% del PIL mondiale. Una massa di denaro che in parte resta parcheggiata in attesa di sanatorie, in parte viene ripulita e riciclata nell’economia formale, in parte serve per finanziare guerre, terrorismo, corruzione, traffici illeciti. Sul tema, ovviamente, vigono la condanna di facciata e l’occultamento di Stato. È lo specchio dell’ipocrisia mondiale: tutti coloro che usufruiscono di servizi offshore sanno di essere fuori dalla legge e in compagnia dei peggiori compagni di strada, ma tanto vale.
Il mancato decollo delle regole che avrebbero reso trasparente la finanza globale è l’ennesima fotografia della crisi di governance a livello mondiale. Nella logica odierna del si salvi chi può, torna comodo avere un posto dove nascondere capitali lontano da occhi indiscreti. Sono le regole non scritte della globalizzazione, che si dimostrano ancora una volta più solide e radicate di qualsiasi tentativo di cancellarle.
Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare