
Aggrappati al turismo
Pubblicato: 16 ottobre 2021 in Senza categoria
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Dopo la Thailandia, le Seychelles, le Maldive, l’Indonesia e l’Egitto, anche il Vietnam ha annunciato una “sandbox” turistica o, meglio, la creazione di “bolle sanitarie” per riaprire le porte al turismo internazionale. La maggior parte dei Paesi asiatici aperturisti è alle prese con la variante delta e con una situazione sanitaria ancora lontana dall’essere sotto controllo, a causa della scarsa diffusione dei vaccini. Eppure hanno fretta di riaprire perché il turismo di massa, soprattutto quello in cerca di mare e sole, rende questi Paesi simili a organismi assuefatti alle droghe pesanti, che passano dal danneggiarsi assumendo droga allo star male per l’astinenza. Per molti di essi il turismo è stato negli ultimi decenni il toccasana che consentiva di incamerare valuta forte e, in questo modo, di mantenere basso il disavanzo pubblico, ottenendo tassi di interesse contenuti al momento di rivolgersi al mercato internazionale dei capitali. Questo in aggiunta, ovviamente, all’occupazione generata dal settore, importante per le casse pubbliche in quanto si tratta di personale in regola e di imprese che fatturano regolarmente e, quindi, versano al fisco.
La riapertura dell’industria turistica di Phuket, Bali o Sharm el-Sheikh non deve meravigliare. Infatti, contrariamente a quanto capita nei confronti di Stati ben più ricchi, gli organismi internazionali e i mercati di capitale si aspettano che i Paesi emergenti registrino avanzi di bilancio, abbiano solide riserve in valuta estera e non eccedano nella spesa pubblica. Sono i parametri in base ai quali si calcolano tassi d’interesse più o meno salati al momento della concessione dei prestiti, e il turismo, insieme alle rimesse degli emigrati, è vitale perché questi Paesi possano raggiungere condizioni favorevoli. A tale logica sfuggono gli Stati con un’economia più matura e bilanciata, che hanno entrate generate anche da esportazioni diversificate e possono contare su un mercato interno più solido. Paesi come quelli che nel Sudest asiatico stanno riaprendo al turismo hanno, viceversa, un settore di beni e servizi dipendente da pochissime voci, tutte collegate alla congiuntura internazionale, come appunto il turismo.
Ecco perché l’industria turistica di massa nei Paesi emergenti è così importante e, al tempo stesso, devastante nei suoi impatti. Crea seri problemi ambientali e sociali, introduce dinamiche esogene sul costo di merci e servizi, opera quasi senza vincoli né controlli. Il turismo, in queste situazioni, non genera processi di reale sviluppo e non viene pensato come opportunità di crescita delle comunità locali, ma solo come “salvadanaio” degli Stati. Che, dunque, chiudono gli occhi davanti allo scempio ambientale o all’imposizione di condizioni di lavoro intollerabili pur di far continuare il flusso di turisti, considerati solo come portatori di valuta forte.
Si tratta di una situazione che si presenta uguale a sé stessa fin dalla nascita turistica di queste destinazioni, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, senza che si sia mai veramente cercato di porre dei correttivi. Il turismo continua a vivere un’enorme contraddizione: genera risorse gigantesche, seconde solo a quelle del settore manifatturiero, ma viene considerato un’attività quasi marginale, finalizzata a tappare buchi dei conti pubblici. Eppure, a differenza dell’industria, del commercio o delle attività finanziarie, il turismo si svolge in luoghi che sono quelli del vivere comune, consumando territorio, acqua, cibo, bellezza; il turista entra capillarmente nella vita delle popolazioni, convive con i residenti, spesso nella stessa casa, e cambia il volto delle città e delle coste, cambia la cultura locale, fa muovere importanti pezzi dell’economia reale. Ma questi aspetti non sono considerati: il turista continua a essere percepito come una specie di convitato di pietra, una questione di vita o morte solo per i conti pubblici.