Se il fallimento del Jobs Act è sotto gli occhi di tutti, la costruzione di una ricetta alternativa deve ripartire dalla messa al bando dei presupposti che hanno ispirato le politiche del lavoro degli ultimi decenni
Il fallimento del Jobs Act e delle politiche economiche del governo è sancito dai numeri, che solo nel 2017 mostrano l’aumento significativo dei licenziamenti disciplinari e un’occupazione trainata dai contratti di lavoro a tempo determinato. Un risultato che spinge ad una riflessione critica sui principi teorici che hanno ispirato le misure del governo Renzi e che necessita di alcune considerazioni sul ruolo di politiche alternative per rispondere alla crisi occupazionale e al fenomeno strutturale del lavoro povero.
I risultati fallimentari del Jobs Act risiedono in buona parte nell’accettazione acritica dei dogmi neo-liberali, che assegnano alla riduzione del costo del lavoro la leva per rimettere in sesto la competitività dell’economia nazionale. Il postulato della moderazione salariale e di politiche di liberalizzazione dei rapporti di lavoro come viatico per la crescita dell’economia si lega ad una visione dello sviluppo export led, trainato cioé dalla capacità di esportazione delle imprese in un quadro segnato dalla concorrenza internazionale. La dipendenza dal mercato estero e la scarsa propensione agli investimenti pubblici e privati (tra i più bassi dell’Eurozona), derivanti tra l’altro da una domanda interna stagnante, spiegano la tendenza del settore privato ad utilizzare gli incentivi pubblici (gli sgravi contributivi) per ristrutturare l’apparato produttivo attraverso licenziamenti ed esternalizzazioni o come risparmio non investito, quindi sotto forma di rendita. L’impianto delle politiche economiche del governo si è quindi focalizzato unicamente sul lato dell’offerta, senza però che alla riduzione del costo del lavoro si siano accompagnate misure di rilancio dell’industria nazionale e di ammodernamento dell’apparato produttivo. Il risultato è quello prevedibile: aumento del lavoro “povero”, bassi salari, segmentazione del mercato del lavoro con punte di sfruttamento intensivo come testimoniato dall’emergere di fenomeni di nuovo caporalato e alto tasso di disoccupazione, specie tra le generazioni più giovani.
Se il fallimento del Jobs Act è sotto gli occhi di tutti, la costruzione di una ricetta alternativa deve ripartire dalla messa al bando dei presupposti che hanno ispirato le politiche del lavoro degli ultimi decenni, rovesciandone la base teorica e politica. Riconoscendo dunque, priorità al lavoro e alle condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici rispetto a quelle dell’impresa, ripristinando una scala di valori che risponda ai bisogni vecchi e nuovi del mondo del lavoro. In questo quadro, la discussione attorno alla redistribuzione del tempo di lavoro e più in generale ad una riforma profonda delle forme di organizzazione del lavoro in rapporto ai tempi di vita assume nuova centralità.
Riduzione dell’orario e occupazione
Come è stato già notato in Italia si lavora mediamente di più rispetto a paesi come la Germania e la Francia, in cui le performance complessive dell’economia sono nettamente migliori. Redistribuire l’orario di lavoro, riducendo l’impatto delle ore lavorate per singolo lavoratore avrebbe il merito evidente di ampliare la base occupazionale e rispondere concretamente all’aumento della disoccupazione. Un’affermazione che solleva alcune critiche da parte dei difensori dell’ideologia neo-liberale. Tra i vari rilievi posti, vi è la considerazione che la riduzione dell’orario di lavoro non provocherebbe alcun miglioramento dell’occupazione, in quanto avrebbe un impatto negativo sul costo del lavoro, e in particolare sui costi unitari del lavoro. La tesi è che se le imprese assumono più lavoratori sarebbero costrette a veder aumentare i costi a parità di prodotto, riducendo quindi la capacità concorrenziale sui mercati. Una considerazione discutibile, a partire dalle statistiche ufficiali che spiegano che nel nostro paese vi è stata la riduzione più significativa del costo del lavoro tra i paesi dell’Eurozona, senza alcun beneficio sulla competitività delle imprese. La caduta del costo del lavoro, che è seguita alle politiche di moderazione salariale e agli interventi di liberalizzazione del mercato del lavoro, ha avuto un impatto nullo, se non negativo sulle performance dell’economia nazionale. (confrontare dati sul Pil). Evidenze che spiegano come la dinamica dell’economia nazionale non dipenda dagli oneri salariali e contributivi a carico delle imprese, ma dall’assenza di politiche della domanda che favoriscano la crescita dei consumi e degli investimenti. La ragione è semplice e intuitiva: la dinamica degli investimenti privati è legata alla fiducia delle imprese sulla probabilità che l’aumento del prodotto, a seguito degli investimenti tecnologici, incontri una crescita della domanda di beni e servizi. Inoltre, l’aumento dei salari e del costo del lavoro incentiverebbe l’impresa ad aumentare la produttività attraverso il ricorso ad innovazioni tecnologiche e più in generale ad una politica di investimenti. Se nel settore privato la dinamica positiva dei salari e dei consumi spingerebbe il settore delle imprese a qualificare la propria offerta sul terreno dell’innovazione di prodotto e di processo, un impatto ancor più positivo avrebbe sul settore pubblico. Negli ultimi 25 anni l’ondata di privatizzazioni che ha coinvolto interi settori strategici della vecchia impresa di Stato è andata di pari passo con una caduta dei salari del lavoro dipendente nel settore privato e con una crescita delle diseguaglianze di reddito. Interi settori prima controllati dallo stato sono stati svenduti a cordate di imprenditori privati. La scomparsa dell’industria di stato è stata accompagnata nel giro di qualche decennio dalla privatizzazione di intere funzioni pubbliche, dalla sanità, ai servizi educativi, dal trasporto pubblico sino ai servizi per l’impiego. Questo progressivo dimagrimento delle funzioni pubbliche ha avuto e continua ad avere un impatto negativo sulla componente del salario indiretto che costituisce una dimensione importante della domanda aggregata. Un processo che è andato di pari passo con una crescente privatizzazione del lavoro pubblico, che sino ai primi anni ’90 conservava una maggiore stabilità rispetto al settore privato. L’aumento di contratti “atipici”, il ricorso costante a part-time involontari sino all’esplodere dei voucher e dei tirocini ha esposto il settore pubblico ad un processo di precarizzazione funzionale a ridurne peso e influenza. In questo contesto, la riduzione dell’orario di lavoro funzionale ad un aumento degli organici del settore pubblico avrebbe non solo il merito di restituire un lavoro qualificato ad intere fasce di lavoratori costretti a barcamenarsi in lavori saltuari e precari, ma consentirebbe di avere un’influenza positiva sulla dinamica della domanda aggregata. Diversamente dal settore privato caratterizzato da una struttura produttiva trainata da piccole e micro imprese che necessita di interventi più flessibili, nel settore pubblico una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per via legale porterebbe benefici immediati. In quest’ottica andrebbe ripresa la proposta della Cgil presentata nel 2016 sul Piano del lavoro per l’occupazione giovanile e femminile, che prevedeva tra l’altro l’assunzione diretta di 200 mila unità nella pubblica amministrazione.
Riduzione dell’orario e organizzazione del lavoro
L’ultimo trentennio di storia europea e italiana è segnata dalla crescita delle diseguaglianze di potere tra capitale e lavoro e dal progressivo indebolimento dei meccanismi di contenimento del conflitto…
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