Volendo si può: in Spagna ora la precarietà è “fuorilegge”
di Marco Barbieri, direzione nazionale SI
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano)
La Spagna, col Real Decreto-ley 32 del 28 dicembre, ha operato una riforma rilevante delle regole del lavoro sinora vigenti. Nel ventennio trascorso, sia i governi della destra sia quelli socialisti, avevano più o meno largamente ceduto alla spinta verso la flessibilità e, in sostanza, avevano squilibrato il mercato del lavoro a vantaggio dei datori di lavoro, come d’altronde è avvenuto anche in Italia nello stesso periodo (in forma estrema nel 2015 con il Jobs Act di Matteo Renzi).
La riforma è stata preceduta da una lunga trattativa con le parti sociali, che – contro le previsioni più diffuse – ha portato a un accordo non solo con le due grandi organizzazioni sindacali spagnole – la UGT socialista e le CC.OO. di tradizione comunista – ma anche con le due organizzazioni datoriali, CEOE (con qualche importante dissenso interno) e CEPYME. Non sono ovviamente mancati momenti di seria tensione all’interno del governo, in particolare tra la ministra del Lavoro comunista Yolanda Diaz e l’ala dei socialisti più legata all’impostazione precedente, impersonata dalla vice-presidente Nadia Calviño.
I contenuti essenziali del decreto – che come vedremo ora deve passare da una non semplice approvazione parlamentare – sono:
1) Restrizione del ricorso ai contratti a termine, che in Spagna – prima della crisi pandemica – toccavano la quota del 22,3% del totale contro una media dell’Unione Europea del 12,8% e italiana del 13,4% (dati 2019 della Commissione Europea: Employment and Social Development in Europe, 2020)
2) Adeguamento delle regole del contratto collettivo, che in Spagna è densamente regolato per legge
3) Garanzie per chi lavora in appalto e in subappalto
4) Predisposizione di un meccanismo permanente idoneo a evitare che le crisi si tramutino immediatamente in licenziamenti: qualcosa di paragonabile alla Cassa integrazione guadagni italiana.
Per il primo aspetto, cui Yolanda Diaz ha dato particolare rilievo, occorre ricordare che la Direttiva europea 70/1999 prevede tre possibilità per evitare l’abuso dei contratti a termine:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti (lasciando, secondo l’interpretazione prevalsa, libertà di stipulazione per il primo contratto precario)
b) fissazione di una durata massima totale dei vari contratti successivi
c) limitazione del numero dei contratti
Ebbene in Spagna, con il decreto di cui si parla, il contratto di lavoro si presume a tempo indeterminato e potrà avere un termine solo per circostanze produttive o sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Il contratto a termine, poi, non può durare più di sei mesi (o un anno se previsto dal contratto collettivo): se si superano i 18 mesi di lavoro su 24, anche con contratti diversi, il lavoratore passa a tempo indeterminato.
Si prevede, fra l’altro, l’incremento della contribuzione per i datori che assumano con contratti a termine più brevi di trenta giorni: in evidente difformità dal postulato idiota, condiviso in Italia da organizzazioni datoriali e forze politiche di maggioranza, secondo cui in nessun caso bisogna aumentare il costo del lavoro (ma sarebbe discorso lungo).
In Italia, invece, la richiesta di una giustificazione del contratto a termine è stata prima eliminata per il primo contratto dalla legge Fornero del 2012, poi del tutto dagli interventi legislativi del 2014 e del 2015 del governo Renzi, poi reintrodotta, ma solo se il contratto o i suoi rinnovi superassero i dodici mesi, dal cosiddetto “decreto dignità” del 2019 (governo Conte 1).
I dati ci indicano come da noi nei primi nove mesi del 2021 siano aumentate pochissimo rispetto allo stesso periodo del 2020 le assunzioni a tempo indeterminato (+8%) e molto di più le varie forme precarie, che hanno costituito quasi il 70% delle assunzioni dei primi nove mesi del 2021 (fonte: Inps, Osservatorio sul precariato). È mia personale convinzione che, se fossero ancora in carica il governo Conte 2 e la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, si sarebbe pensato a un intervento legislativo di restrizione ben più incisivo del “decreto dignità”, per evitare che tutto il lavoro che si recupera con la parziale ripresa economica in corso si traduca in lavoro precario. Si deve prendere atto che invece il governo attuale e il ministro Andrea Orlando non abbiano preso alcuna iniziativa come quella spagnola e che probabilmente non la prenderanno, malgrado le sollecitazioni in tal senso provenute da Cgil e Uil in occasione dello sciopero generale del 16 dicembre.
Per quanto riguarda invece le regole del contratto collettivo, la Spagna ha deciso di restringere la priorità del contratto aziendale su quello nazionale – che era stata introdotta dalla destra nel 2012, ma neppure apprezzata specie dalle piccole e medie imprese – alle sole materie orario e turni, straordinari, adattamento dell’inquadramento professionale, conciliazione vita-lavoro. In Italia invece l’articolo 8 del decreto 138/2011 (mai abrogato) prevede addirittura – con previsione tanto confusa quanto probabilmente incostituzionale, e di scarso uso pratico – la prevalenza del contratto aziendale sulla legge, nella speranza dell’allora governo Berlusconi di distruggere il diritto del lavoro sostituendolo con una contrattazione aziendale dominata dal ricatto padronale. Infine, tornando in Spagna, per quanto riguarda gli appalti si rafforza la responsabilità solidale dell’impresa appaltante per il pagamento dei contributi (per tre anni) e del salario (per un anno).
Non sarà però facile l’approvazione parlamentare, perché le destre menano scandalo che si sia invertita la tendenza alla restrizione dei diritti di chi lavora, mentre i partiti indipendentisti e regionalisti da cui dipende la maggioranza parlamentare, preoccupati della popolarità della ministra Diaz, hanno dichiarato che la riforma è insufficiente. Certamente il decreto spagnolo non ha cancellato le regole sul licenziamento illegittimo, che era stato reso più facile ed economico dalla destra, ma è – malgrado i suoi limiti – un’inversione di tendenza contro la precarietà, che meriterebbe di essere seguita anche in Italia. Quel che però s’era intravisto col precedente governo, con Draghi è scomparso, sostituito dalla restaurazione delle politiche contro il lavoro già fallite nel ventennio precedente.
*ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Foggia
https://www.sinistraitaliana.si/notizia/volendo-si-puo-spagna-ora-la-precarieta-fuorilegge/