Due fatti in questa settimana colpiscono per la loro contraddittoria rilevanza. Il referendum greco ha tracciato in Europa confini politici più che mai netti, che aiutano a orientarsi in una situazione non semplice né favorevole. Nel frattempo in Italia la rivoluzione reazionaria di Renzi imperversa e corona la propria azione inquinante con l’approvazione di una legge nefasta contro la scuola pubblica. A dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che il nostro paese resta prigioniero di una possente spinta regressiva.
Sullo sfondo del conflitto tra la Grecia e le «istituzioni» il continente si è diviso. Chi ha gioito ha letto nella vittoria del No la testimonianza della dignità e del coraggio consapevole di un popolo capace di resistere al terrorismo internazionale della troika. Chi ha maledetto nel referendum una forzatura e una mossa populistica ha poi schizzato fiele per la bruciante sconfitta, giurando che quei sudici fannulloni non la passeranno liscia. Ma se si va a guardare chi si è collocato da una parte o dall’altra, ci si accorge subito che non si può più straparlare di destra e di sinistra utilizzando pigramente le cartografie tradizionali. Lo show down coraggiosamente imposto dalla leadership greca richiede urgenti aggiornamenti delle mappe, soprattutto per quanto riguarda la sinistra, sedicente o reale.
I continui tentennamenti del presidente francese, succube dell’egemonia tedesca, e l’indecente performance del presidente del parlamento europeo in trasferta ad Atene dimostrano che l’eclisse della socialdemocrazia è in tutta Europa il tratto cruciale di questa fase storica e un architrave costitutivo dell’eurocrazia. Venti, trent’anni di neoliberismo hanno stravolto in profondità le culture politiche e l’identità delle organizzazioni e dei ceti politici. Quella che sino agli anni Ottanta fu la sinistra socialista, rappresentante dei movimenti operai e democratici, ha interiorizzato le ragioni di una modernità arcaica, incentrata sulla primazia del mercato e del capitale transnazionale. Oggi siamo, complici le rovinose conseguenze del monetarismo e dell’architettura comunitaria, allo smascheramento delle ipocrisie. Quella sinistra si arma contro il lavoro, contro i diseredati, contro i subalterni. E va alla guerra – una guerra di sterminio – dirigendo in prima linea le operazioni sul campo.
In Italia, laboratorio politico del trasformismo, il dislocarsi della «sinistra di governo» non è certo meno visibile e concreto che altrove. Che cosa intendiamo di norma parlando di sinistra? Ci riferiamo alle battaglie per la giustizia sociale e l’eguaglianza; per la tutela del lavoro dipendente e dei diritti sociali. Torniamo alle lotte per la democrazia integrale, concepita come autodeterminazione della collettività. Quindi all’antifascismo. Pensiamo alla pace e a un’idea di progresso come sicurezza sociale e crescente riconoscimento dei diritti. Confrontata con questi temi, la storia politica italiana degli ultimi vent’anni non lascia margini al dubbio. La sinistra si è via via dileguata. O ha cambiato residenza, abbandonando le dimore tradizionali delle quali veniva espropriata dalla prepotente egemonia neoliberale. Oggi siamo al dunque. Non c’è evidenza che offuschi il quadro, e chi resista a riconoscere la realtà non può credibilmente rivendicare alibi.
Al netto delle menzogne populiste, Renzi ha praticato politiche di pura austerity aumentando la pressione fiscale sul lavoro e sul ceto medio e riducendo sistematicamente le prestazioni del welfare. Ha brutalmente attaccato le residue tutele del lavoro e il sindacato. Ha imposto, con l’aiuto dell’amico Verdini, un’odiosa controriforma autoritaria e privatistica della scuola e adesso lavora per distruggere il sistema nazionale dell’università pubblica. Ha varato una legge elettorale liberticida, peggiore del porcellum, nella speranza di consacrare la propria dominazione personale. E sta per manomettere definitivamente la struttura costituzionale della democrazia rappresentativa accrescendo a dismisura il potere delle oligarchie e delle cricche politiche.
Nulla di quanto Renzi fa o dice (anche in Europa, dove si è candidato a mazziere dei poteri forti) può essere ricondotto a un’idea di sinistra che conservi un’ombra di significato. Nel suo schema operativo «sinistra» è soltanto uno schermo propagandistico utile a competere, sulla base di piattaforme comuni, con la destra tradizionale razzista e camorrista. Questa verità va finalmente detta con forza e senza perifrasi. Va detta, prima che sia troppo tardi, all’elettorato del Pd. E va ripetuta con ostinazione all’opposizione interna di quel partito, la cui timidezza – o pavidità – ha sin qui permesso al governo di restare in sella e impedito che nuove energie si liberassero in questo paese, ultimo e unico tra i fondatori dell’Unione europea a rimanere immobile nella palude di una politica senza alternativa.
Resta, si dirà, proprio questo problema. Non c’è, al momento, un’alternativa praticabile. Non c’è in Italia Syriza né Podemos; non c’è la Linke né tanto meno un partito comunista credibile. C’è invece un M5S costituito nell’ambiguità, ricettacolo e catalizzatore di un senso comune innervato dal pregiudizio qualunquista, ed è evidente che si tratta delle due facce di una stessa medaglia. Ma il fatto di aggirarsi in un maledetto circolo vizioso non costituisce un alibi per la rassegnazione. Muovere queste acque stagnanti prima che si trasformino in sabbie mobili è necessario e urgente. Bisogna tentare, con onestà e spregiudicatezza, di liberare e riunire le energie disperse e di riconquistare la fiducia dell’enorme giacimento dell’astensionismo. Per questo occorre costruire nuovi riferimenti, liberi dall’ipoteca di questi anni bui. È un’impresa difficile, disperata, ma non impossibile. Anche il barone di Münchhausen rischiò di sprofondare nel fango ma riuscì a salvarsi afferrandosi per il codino.
Alberto Burgio – il manifesto