Da tempo avevo in mente di scrivere due righe sul tema della “sestesità”: hanno usato questo concetto, e se ne sono fregiate, alcune liste che si propongono alla cittadinanza alle prossime elezioni amministrative; considerazioni sulla sestesità sono state l’oggetto di due di articoli, di Ennio Rigamonti e di Angelo Villa, comparsi su questo sito.
Lo faccio ora in combinazione con l’articolo che riflette su un piccolo e marginale episodio successo a una nostra candidata, sestese, di nazionalità italiana e giordana.
Sono sestese di nascita e da almeno tre generazioni. Conosco la storia di Sesto, non solo per averne vissuto una buona parte, ma anche per averne fatto oggetto di studio e ricerca.
Se qualcuno mi chiedesse cosa vuol dire essere sestesi e quindi quale sia l’essenza della sestesità, risponderei partendo da un fatto e da alcuni ricordi personali.
Il fatto risale all’inizio del secolo scorso: la Breda ha da pochi anni aperto lo stabilimento di Sesto, e tanti ex contadini del luogo hanno trovato lavoro come manovali non specializzati. Il giorno della loro festa patronale, “quelli di Balsamo” – racconta in un articolo il cronista de La Brianza, settimanale di orientamento socialista che si stampa a Monza – disertano il lavoro. È una consuetudine radicata: è la festa del patrono e quindi si va alla sagra del paese. La Breda li licenzia: sono le regole!
La Camera del lavoro interviene, tratta, contratta, riesce a ottenere che siano riassunti, ma non indulge con i lavoratori che si sono assentati; anzi li richiama al loro dovere: la fabbrica ha regole nuove, diverse rispetto al lavoro dei campi; la fabbrica è il luogo del riscatto e dell’emancipazione e il diritto al lavoro comporta il dovere di accettarne le regole.
I ricordi sono tutti legati alla mia famiglia, una famiglia operaia.
Mio padre ha lavorato quarant’anni alla Magneti Marelli; per quarant’anni è andato al lavoro in bicicletta: si faceva vanto di non aver mai timbrato in rosso il cartellino (traduco per chi non conoscesse l’espressione: non è mai arrivato con un minuto di ritardo sul posto di lavoro). Va da sé che lo stesso rigore si trasferiva nelle otto ore di lavoro in reparto. Etica del lavoro, sestesità.
Mio zio, operaio specializzato della Breda; membro della Commissione interna (nel 1952, si chiamava così la rappresentanza sindacale in fabbrica) è in prima fila nello sciopero contro la “legge truffa”. Vi sono tafferugli, è arrestato, sia pur per pochi giorni, la Breda lo licenzia: troverà poi lavoro all’Ansaldo a Genova, ma continuerà il suo impegno. Il lavoro e i diritti dei lavoratori, sestesità.
Un altro mio zio, tornitore alla Breda: ho avuto modo di vederlo ammirare con orgoglio il pezzo di metallo tornito di precisione, prodotto della sua professionalità sul lavoro; quando, studiando filosofia, ho scoperto Hegel che teorizza come il “servo” ribalti il rapporto di subordinazione al “padrone” perché nel fare e nel produrre e nell’oggetto materiale che è frutto del suo lavoro riconosce la propria dignità, ho pensato a mio zio. La dignità nel lavoro, sestesità.
Cosa unisce questi ricordi e quel fatto di inizio Novecento? L’etica del lavoro. È il lavoro e i valori che su di esso si fondano che nel mio immaginario fanno di Sesto una città speciale. E se mi si chiede di nuovo cos’è la sestesità, concetto sul quale altri, oltre La Fabbrica, si sono interrogati, non ho una definizione classica del tipo “dicesi sestesità…”, ho quelle immagini da riproporre, più una considerazione che prendo a prestito dalla storia di un altro operaio sestese che ha lavorato alla Falck, esponente della Resistenza, il padre di uno di noi.
Devo però prima fare una digressione. Sesto San Giovanni è un insieme di mille provenienze: in ordine di apparizione, “quelli di Balsamo” (allora i campanili contavano e dividevano) … i brianzoli, i bergamaschi, comaschi e bresciani; poi i toscani, i veneti, poi ancora i profughi dall’Istria, via via da tutte le regioni e poi ancora i “terroni”.
Cosa ha fatto sì che uomini e donne di ogni provenienza – e qui prendiamo ad esempio i “terroni” perché nei loro confronti furono nutrite le stesse diffidenze nei confronti di chi oggi arriva da altri continenti – cessassero di essere diversi e fossero riconosciuti tutti nell’identità sestese? La risposta è nelle premesse: il lavoro e la condivisione dei valori del lavoro.
Torniamo allo storico operaio della Falck: per lui, di origini bergamasche e lontane ascendenze brianzole, l’insulto che dequalificava una persona e la discriminava, non era né poteva essere il “terun”, perché il terrone era suo compagno di lavoro, solidale nella lotta per il contratto e per i diritti dei lavoratori, ma “lasarun”: il lazzarone che eludendo il suo dovere danneggia non solo se stesso ma anche i compagni di lavoro.
Solidarietà, identità, sestesità!
di Giorgio De Vecchi