Sesto: ricostruire i legami di vicinato in una grande città

immagine tratta da Cittadinanza Attiva Emilia Romagna

Enzo Nova, volontario disoccupato a causa del coronavirus, esplora altre possibili azioni di sostegno a chi si trova in difficoltà – Di Rossana Di Renzo -12 Maggio 2020

a cura di Enzo Nova – Redazione

Sesto S. Giovanni, città post industriale

Vivo in una città con un grande passato industriale, Sesto S. Giovanni, la città delle grandi fabbriche alle porte di Milano, che ha subito profonde trasformazioni dagli anni ’60 ad oggi, anche dal punto di vista della configurazione urbanistica. Le grandi corti su cui si affacciavano in cerchio case alte al massimo due piani sono state via via sostituite da alti palazzi per ospitare, come alveari, tante famiglie ognuna chiusa nel proprio spazio.

Nella mia infanzia io ho vissuto la vita del cortile dove non c’era bisogno dei richiami di un Papa alla solidarietà perché questa intesseva le relazioni sociali di grandi e piccoli quasi in modo naturale. 

Volontario in periodo pre-coronavirus

Oggi, da pensionato, dedico la maggior parte del mio tempo al volontariato, come pure mia moglie ma in ambiti diversi. Io collaboro soprattutto con AUSER occupandomi di accompagnare persone anziane o affette da malattie croniche a sostenere visite mediche o a fare terapie riabilitative. Per me questo non è solo svolgere il ruolo di autista, ma avere l’occasione di parlare con le persone che accompagno, ma ancora più di ascoltarle perché molte di loro vivono storie di solitudine, di delusione per l’allontanamento dei figli, e non solo di tipo fisico.

Così, puntata dopo puntata, mi fanno entrare nella loro storia.

Faccio parlare anche i sassi

Chi mi conosce dice di me che sarei capace di far parlare anche i sassi. Non ci ho ancora provato, certo è che il tutto parte da me che sfodero il più bel sorriso di cui sono capace, saluto con convinzione, offro il mio braccio a chi ne ha bisogno per salire sul pullmino e, una volta al volante, si comincia la chiacchierata.

Le mie radici

Il volontariato non è solo legato alla mia condizione di pensionato perché è uno stile di vita che avevo anche quando lavoravo e che viene da molto lontano e che credo sia entrato a far parte del mio dna: mio padre è stato un grande esempio per me fin da quando ero bambino. Nei difficili anni della condizione operaia nelle grandi fabbriche, lui che lavorava alle Acciaierie Falck, e impegnato come sindacalista, si era inventato il ruolo di “tutor” nei confronti di giovani migranti che provenivano soprattutto dal meridione in cerca di lavoro e di un futuro migliore. Mio padre li aiutava a comprendere le regole di funzionamento all’interno della fabbrica ma anche nel contesto cittadino, a trovare un alloggio, a sbrigare pratiche burocratiche a parlare in italiano per essere compreso dalla comunità di accoglienza lasciando la parlata dialettale nell’ambito familiare.

Spesso la sera si presentava a casa con qualche giovane appena arrivato felice di poter offrire loro un piatto di minestra in un contesto che richiamasse un po’ il clima della famiglia d’origine. Mia madre era abituata e preparava la cena sempre in abbondanza. 

Volontario in tempo di coronavirus

In periodo di coronavirus le attività di Auser sono state sospese confinandomi nella posizione di ”volontario disoccupato”, mentre mia moglie poteva lavorare da casa confezionando mascherine con tessuto lavabile. Io allora avevo pensato di propormi alla Croce Rossa ma ho saputo che per sicurezza non si avvalgono del supporto di ultrasessantacinquenni. Se da un lato posso comprendere la loro politica di sicurezza, dall’altro lato riconosco che non tutti gli ultrasessantacinquenni sono uguali: io non sento per nulla il peso degli anni che ho, anche se c’è la mia carta di identità a rinfacciarmelo spietatamente in forma scritta; devo comunque riconoscere che godo di buona salute e questo non è poco.

Non volevo arrendermi

Non volendo pertanto arrendermi agli arresti domiciliari imposti dal coronavirus ho esplorato altre possibili azioni di sostegno a chi si dovesse trovare in difficoltà. Nel mio palazzo l’età media è di 75 anni: sono persone che per lo più vivono da sole perché hanno perso il coniuge o sole da sempre e, a causa delle restrizioni imposte, non escono di casa come pure non possono frequentare i centri diurni per anziani che solitamente riempivano i loro pomeriggi consentendo loro di vivere uno spazio relazionale importante.

Non si vive di solo pane

Tutte le mattine suono i loro citofoni e chiedo se hanno bisogno per la spesa o per le medicine e io provvedo a fare acquisti per loro. Ma mi sono accorto che non bastava: a loro mancava quello spazio relazionale che solitamente trovavano nei centri diurni per anziani, chiusi in questo periodo di emergenza. Mi sono allora inventato un modo per sollevare il loro morale, per farli ridere un po’. Con la complicità di mia moglie, promossa per l’occasione operatrice video, ho realizzato degli sketch impersonando personaggi vari e li ho inviati tramite whatsapp potendo contare sul fatto che per fortuna tutti hanno uno smartphone; il loro grazie mi ha fatto sentire meno ridicolo di quanto mi sentivo le volte che con i miei travestimenti improvvisavo battute e mia moglie mi riprendeva.

Volontario post coronavirus

Questa emergenza però sembra non finire mai e da un po’ di giorni mi frulla nella mente una domanda: quando sarà finita l’emergenza cosa rimarrà della riscoperta del vicinato in termini di relazioni più attente ai bisogni altrui?

Sicuramente le persone anziane del mio palazzo non avranno più bisogno dei miei sketch per sentirsi meno sole, come sicuramente non basterà mantenere l’abitudine di offrire la mia disponibilità per sbrigare commissioni legate alla spesa o ad altre incombenze anche se saranno minori le occasioni perché i figli o altri parenti torneranno a fare loro visita.

Penso allora a un’idea che mi sarebbe piaciuto realizzare se la lista civica di cui facevo parte per le ultime elezioni amministrative avesse vinto e che poi ho abbandonato.

Il vicinato di prossimità

Si rifaceva un po’ all’idea di vicinato che avevo vissuto negli anni della mia infanzia quando nella corte esisteva una sorta di mutuo aiuto in caso di piccole riparazioni per semplici guasti quali per esempio la sostituzione di un rubinetto che perde o la riparazione di fili elettrici ammalorati. Oggi in una grande città come la mia per interventi di poco conto senza alcuno che in casa sappia fare si deve ricorrere a un professionista, che solitamente ama poco spostarsi per guasti semplici e, quando lo fa, applica tariffe alquanto alte che includono sempre una quota fissa per l’uscita spesso sproporzionata rispetto all’intervento eseguito.

Alla ripresa dopo l’emergenza coronavirus mi piacerebbe organizzare a livello della mia zona un gruppo di pronto intervento per il quale mi propongo io stesso insieme a un paio di altri volontari disponibili. Dal punto di vista pratico occorrerebbe un punto di raccolta per far incontrare “domanda” e “offerta” e per questo ho pensato di interpellare le realtà di volontariato con cui ho collaborato recentemente per progetti di integrazione dei migranti e presenti nella mia zona. Queste accoglierebbero le richieste di intervento delle famiglie e fare da tramite col gruppo di pronto intervento che, in tempo reale e a titolo gratuito, entrerebbe in azione.

Dall’idea all’attuazione

Ne ho già parlato con alcuni volontari che sarebbero disponibili a studiare con me le modalità di attuazione del Pronto intervento pensato per alleviare il bilancio delle famiglie più in difficoltà dal punto di vista economico e nello stesso tempo di garantire l’affidabilità delle persone che si apprestano ad entrare nelle loro case. Il tema della sicurezza infatti non va trascurato visti i raggiri di cui spesso sono vittima le persone anziane e che vivono sole. Una volta sperimentato questo modello di vicinato di prossimità nella mia zona, si potrebbe esportare in altre zone della città con le stesse caratteristiche.

Ovviamente, come nel mio abituale ruolo di autista volontario la mia attenzione è volta alla relazione con la persona che accompagno, anche nel caso del pronto intervento la mia azione sarebbe sempre abbinata all’intento di instaurare un dialogo, soprattutto nel caso di chi per vari motivi ha scarse possibilità di relazioni sociali.

Sarebbe insomma un piccolo ulteriore contributo a ricreare un vicinato più prossimo ai bisogni delle persone che ci vivono e più attento alle relazioni.

Un eredità da coltivare

Se il coronavirus lasciasse come eredità il mantenimento anche solo di una parte di quelle attenzioni che abbiamo visto essere messe in atto in  molteplici situazioni con tanta creatività e basate proprio sul principio di solidarietà, sarebbe un importante elemento positivo e di riscatto per ricostruire una convivenza più a misura d’uomo, in mezzo allo sconquasso che lascerà dal punto vista economico e sociale.

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Foto di Thomas B. da Pixabay