Sesto: un intervista che fa discutere

di Amedeo La Mattina (La Stampa). Si sfoga Filippo Penati, ex presidente della Provincia di Milano ed ex sindaco di Sesto San Giovanni, nonché braccio destro di Pierluigi Bersani ai vertici del Pd, assolto nel dicembre 2015 da tutte le imputazioni, «perché il fatto non sussiste». Dopo quattro anni e mezzo di indagine e tre di processo (difeso dall’avvocato Matteo Calori) sono crollate le accuse dell’inchiesta della procura di Monza sul «Sistema Sesto». Ora Penati insegna italiano ai migranti minorenni della comunità S. Francesco di Milano. «Tra un anno vado in pensione, resto come volontario». Che ne pensa di questi dati che La Stampa ha pubblicato? «Non li conoscevo, ma non mi stupiscono. Immaginavo che la situazione fosse questa. Ho passato quasi cinque anni dentro un incubo. Tutto è cominciato il 20 luglio del 2011 quando i carabinieri bussano alla mia porta. Vengo a conoscenza delle indagini a mio carico solo in quel momento. Venni definito dalla procura di Monza “delinquente abituale”. Quando lo vidi scritto in prima pagina sul Corriere della Sera non potevo crederci. Ma lei lo sa come si può sentire una persona onesta? E sa perché io lo sarei stato?». Ce lo racconti. «Con un grande atto di scorrettezza, la procura mi tese una trappola: aveva mandato l’imprenditore Pasini con un registratore nascosto per incastrami. Io allora ero vicepresidente di minoranza al Consiglio regionale della Lombardia. Avevo fretta di rientrare in aula e ci mettemmo a passeggiare sul marciapiede avanti e indietro velocemente. La registrazione fallì e la procura stabilì che ero “delinquente abituale” perché sarei riuscito a impedire la registrazione. La conclusione è stata che non sono stati trovati i soldi che cercavano nel mio conto corrente e la mia documentazione, come hanno stabilito i giudici, ha smontato la tesi dell’accusa. Io, grazie a questi giudici, oggi posso dire di avere fiducia nella giustizia: il problema sono certi procuratori. Per questo sono favorevole alla separazione della carriere.». Lei però in carcere non c’è stato. «Sì, grazie al gip che ha negato l’arresto alla procura. C’è un eccesso di carcerazione preventiva e una totale deresponsabilizzazione dei magistrati che sbagliano. Perché un chirurgo che sbaglia paga e un magistrato no? In magistratura chi sbaglia non solo non viene punito ma fa carriera. E il caso del mio accusatore, il procuratore aggiunto di Monza Walter Mapelli, che è in procinto di diventare capo della procura di Bergamo». Renzi ha ragione nel dire che abbiamo vissuto una barbarie giustizialista? «Sarei più cauto e lascio a lui la parola barbarie, ma giustizialismo sì. Renzi ha ragione: un’accusa equivale a una condanna. Ma è che la giustizia viene sempre intestata ai pm: sono loro che fanno notizia grazie all’uso dei media e dei giornalisti». E Davigo? «È una persona di spessore e valore, ma quello che mi stupisce non è quello che ha detto, lo ha sempre detto: mi stupisce che sia stato eletto al vertice dell’Anni. Non è più l’illustre magistrato ma il rappresentante di una categoria». È ripartito l’attacco alla politica, come qualcuno sostiene? «C’è una parte della politica che utilizza una certa magistratura contro la maggioranza, come ai tempi di Mani pulite. Oggi sono soprattutto i 5 Stelle a cavalcare le inchieste. La politica è debole. Renzi sta reagendo bene, dicendo che bisogna rispettare l’autonomia della politica. Ma dentro il Pd c’è ancora ambiguità. Per esempio quando sento il capolista a Milano Maiorino dire che Davigo è stato sopra le righe ma non bisogna prendersene.  Come ci sente ad essere definito «delinquente occasionale e poi assolto da tutto? «Quando sei assolto una gioia infinita, ma quando sei dentro al tunnel pensi a cose strane. Guardi io non ho pensato mai al suicidio, ma sono arrivato a capire perfettamente le ragioni di chi si è tolto la vita». Anche il suo Pd lo condannò e allora segretario era Bersani. «Il Pd mi condannò, mi espulse sulla base di un avviso di garanzia e si costituì parte civile. Poi si ritirò dal processo quando cominciò a capire che ero pulito. Bersani era il bersaglio. Il partito non ha retto l’urto mediatico-giudiziario e Pierluigi, che ha sempre creduto nella mia innocenza, non ha potuto arginare l’ipocrisia del Pd. È stata un’amarezza indicibile». (titolo orìginale- Intervista a Filippo Penati)