Sarà tutt’altro che facile arrivare a un accordo sulla designazione del nuovo presidente della Commissione, l’organismo della governance europea responsabile fino ad oggi delle ricette neoliberiste di Bruxelles, nonché l’espressione plastica, insieme al Consiglio europeo, di quel gioco degli equilibri tra potenze piccole e grandi che tanto ha contribuire a scavare il solco tra i popoli europei e le tecnocrazie al potere. Quel gioco perverso dei “grandi” infatti ha depotenziato via via, soprattutto negli anni della crisi che viviamo, la stessa idea dell’unità europea, l’illusione che davvero quella prospettiva potesse presto appartenerci. E nulla sembra cambiare neanche dopo le elezioni del 25 maggio, a dispetto dei campanelli d’allarme che da lì suonano.
I governanti d’Europa ostinatamente ignorano lo stato delle cose e non sembrano disposti a fare i conti con la deriva politica che ha investito l’Europa. La partita per le nuove nomine, Commissione in primis ma anche Consiglio europeo e Assemblea dell’Europarlamento, ha infatti assunto subito il carattere che ha sempre avuto: la ricerca di uno stretto accordo di Palazzo, che tenga insieme le élites al potere ma soprattutto garantisca l’equilibrio tra chi conta di più e chi conta di meno. Perché l’Europa è stata fino ad oggi soprattutto questo e la cancelliera Merkel soprattutto quello stesso equilibrio – che assicuri alla Germania il ruolo centrale – deve garantire.
Non a caso dall’indomani del voto fervono gli incontri ufficiali e quelli ufficiosi, le telefonate formali e gli appuntamenti informali, gli abboccamenti, le ipotesi, le smentite. Tutto per cercare un accordo preventivo. E Merkel è ovviamente al centro del grande risico. Ogni occasione è buona, compreso l’incontro ufficiale del G7 del 9 giugno, che doveva discutere soprattutto della questione ucraina e dei rapporti con Putin ma durante il quale, tra le pieghe informali, si è trovato modo di discutere anche delle nomine europee. Il modo migliore per dare man forte agli euroscettici e fobici che hanno portato un bel po’ di propri rappresentanti in quella sede.
Forse va bene Junker, dice per il momento Angela Merkel, che non ama affatto l’esponente lussemburghese, nonostante che sia del Partito popolare europeo, ma è troppo federalista. E non si perita di aggiungere, ostinata, che il nome di Christine Lagarde rimane sul tavolo. Francese, già ministra del governo Sarkozy, presidente del Fondo monetario internazionale, neoliberista nel cuore e nella mente, Lagarde è, per Merkel, il personaggio chiave per la Commissione. Come potrebbe non piacerle? Inoltre, particolare non secondario, non è stata eletta, viene solo dai Palazzi. La cancelliera infatti ciò che proprio non vuole è una presidenza troppo influenzabile dal Parlamento, come succederebbe nel caso di Junker, che gode del successo elettorale. Ma non sarà facile giungere a un punto di accordo né su Junker, inviso anche al britannico Cameron, che deve giocare in patria e in Europa la partita dell’euroscettico a oltranza, per contrastare il successo dell’eurofobico Farage, né tanto meno su Lagarde, che il francese Hollande, dopo il successo della populista antieuropeista Le Pen, non può ovviamente appoggiare. E la sceneggiata durerà a oltranza, forse fino a luglio. Estenuante, in format adatto ai conciliaboli dei Palazzi, lontana dall’interesse dell’elettorato dei vari Paesi, fatta per disamorare anche i più convinti europeisti.
L’Europa esce dalle elezioni di maggio segnata dai regressi della sua storia più recente, dall’occhiuta ostinazione neoliberista che ne ha stravolto la vocazione solidale e democratica, dal diffondersi di culture eurofobiche e nazionaliste, non di rado violente, in cui si condensano i rancori popolari e i disincanti delle giovani generazioni. L’Europa non ha saputo dar seguito a se stessa e oggi siamo, con questo nuovo Parlamento, a una sorta di redde rationem. Lasciare sul tavolo, come uno dei possibili nomi tra cui scegliere il presidente della Commissione, il nome della presidente del FMI, cioè di uno dei baluardi del neoliberismo globale, significa mettere in scena il fantasma dell’Opera. Annunciare che nulla cambierà né sul piano delle ricette economico-sociali né su quello delle procedure democratiche. La storia dell’Europa ha questo nella sua anima nobile: la stretta connessione tra giustizia sociale e democrazia, l’una funzionale all’altra. Altrimenti è tutta un altra scena, quella che abbiamo cominciato a conoscere e che rischia di portare il vecchio continente a un punto di non ritorno, attanagliata dalla crisi economico-sociale ma anche morale, si senso e futuro. Alexis Tsipras, per la storia del suo Paese, sa bene quanto le cose stiano insieme, quanto il depotenziamento della rappresentanza democratica e delle regole democratiche faccia da sponda all’imposizione tecnocratica delle politiche neoliberiste, al dominio neoliberale della società.
Sarà opportuno fare un altro gioco, benefico per le sorti del vecchio continente. Basterebbe intanto, come primo passo, che i capi di governo accettassero il verdetto delle urne, mantenendo fede all’ indicazione politica che ha caratterizzato la campagna elettorale: che chi riceve più voti abbia l’incarico dai capi di governo per la presidenza della commissione e poi chieda la fiducia al Palamento. Sembra poco ma in Europa sarebbe molto, perché quel presidente avrebbe col Parlamento un legame inedito, che non c’è mai stato in passato, un rapporto che parla delle scelte dell’elettorato e non solo dei giochi di Palazzo. Quest’anno infatti per la prima volta il voto dei cittadini e delle cittadine è stato collegato al nome designato per la presidenza della Commissione e tutti i maggiori partiti hanno indicato il loro rappresentante. Jean Claude Junker del Partito popolare europeo ha avuto il maggior numero di suffragi – 221 – e legittimamente chiede di essere investito della nomina a candidato per presentarsi all’Europarlamento. Spetta a lui, abbiamo detto subito come Sel, e Alexis Tsipras ha sottolineato con forz,a nelle sue dichiarazioni, che bisogna proprio andare nella direzione del voto popolare. Perché, mai come oggi, ridare slancio all’idea dell’unità europea passa attraverso un messaggio che metta insieme, con chiarezza, la richiesta di uscire dal rigore, che uccide la vita delle persone, e la fine di una governance nelle mani di uomini e donne che non hanno avuto nessun mandato popolare e rispondono soltanto a se stessi, alla Troika, alla preminenza degli interessi economico-finanziari su quelli dei popoli. Per questo e per quello che Lagarde rappresenta sullo scacchiere dei poteri globali è proprio meglio che il suo nome non resti sul tavolo e non aleggi come il fantasma dell’Opera.
dal sito di SEL
http://www.sinistraecologialiberta.it/notizie/se-christine-lagarde-resta-sul-tavolo/