Stati uniti. Nella città-location di The Wire, il 63% degli abitanti è composto da afroamericani
Tra Ferguson e Baltimora ci sono mille chilometri, un percorso che nell’ultimo anno è stato capace di condensarne 300, di una storia amara fondata su diffidenze e antiche ferite mai rimarginate. Ieri nella Chocolate City del Maryland, la capitale nera della costa atlantica, come l’anno scorso nel ghetto di St Louis, è esplosa la rabbia a lungo covata sotto l’ingiustizia. Ancora una volta in questo anniversario di Selma, 50 anni di lotte e progressi sono come svaniti in una nuvola di lacrimogeni e di fumo acre.
Oltre a essere la location di The Wire, Baltimora ospita la sede nazionale del Naacp (National association for the advancement of colored people); due dati che ne fanno una città simbolo dell’esperienza afroamericana. Dalla scorsa settimana è l’ultimo epicentro della guerra strisciante che sta sconvolgendo l’America del 2015. L’ultimo episodio è avvenuto a Baltimora, città con una popolazione nera che equivale al 63% della popolazione. L’ultimo caso di brutalità, il 12 aprile scorso, ha provocato la morte di Freddie Gray, un giovane di 25 anni rincorso da un poliziotto dopo aver cercato di scappare di corsa dal controllo di una ronda del suo quartiere a West Baltimore.
Acciuffato Gray, di cui rimane ignota l’imputazione, ha ricevuto il pestaggio di ordinanza ed è stato caricato su un furgone su cui saliti anche i poliziotti. Quando quel cellulare è giunto al commissariato, Freddie aveva la colonna vertebrale spezzata all’altezza del collo; dopo sette giorni di agonia è deceduto. Durante quella settimana, è montata l’indignazione e la rabbia della gente di fronte all’ultimo esempio di brutalità gratuita e impunita. Gli agenti sono stati «sospesi con paga» mentre il dipartimento si è trincerato dietro al consueto «indagini in corso».
«Noi crediamo — ha dichiarato il legale della famiglia — che la polizia stia tenendo nascoste di proposito le circostanze della morte di Freddie mentre prepara una versione dei fatti che la assolva da ogni responsabilità».
Di fronte alle proteste, il capo del sindacato di polizia della città ha definito le richieste di arrestare gli agenti responsabili, «tentativi di linciaggio». Con simili premesse i fatti di lunedì erano inevitabili e le emozioni sono traboccate al funerale di Gray. Davanti alla New Shiloh Baptist, migliaia di persone si sono messe in fila, gremendo la chiesa che dietro all’altare presentava un affresco raffigurante un cristo nero in croce, ai cui piedi agenti di polizia con cani e idranti attacca una manifestazione per i diritti civili: l’esperienza afroamericana resa icona religiosa. Le esequie — con la partecipazione di una delegazione della Casa bianca e notabili del movimento nero come Jesse Jackson — hanno espresso la caratteristica catarsi dei funerali gospel, caricato in questo caso della rabbia repressa di un intera città.
Davanti alla bara bianca in cui giaceva Gray, William Murphy Jr, l’avvocato della famiglia ha affermato: «Siamo qui perché tutti conosciamo molti, troppi Freddie Gray. Gli occhi del mondo ci guardano oggi e ci chiedono se sapremo dare la giusta risposta a questa ennesima ingiustizia». Parole accolte dalle grida di «no justice no peace!».
«Non so come si possa essere neri oggi in America e rimanere silenziosi, come si possa tacere mentre i nostri figli vengono ammazzati per strada» ha aggiunto nell’omelia il reverendo Jamal Bryant. Il silenzio è stato puntualmente, rotto dopo la cerimonia. Gruppi di studenti del liceo del quartiere si sono radunati nei pressi della chiesa, fronteggiati da cordoni di polizia in assetto antisommossa.
Poco prima delle esequie la polizia aveva rilasciato un comunicato provocatorio, un bollettino allarmista che avvertiva di «una taglia sui poliziotti», minacciati di attentati coordinati dalle gang della città (per rispetto ai funerali Crips e Bloods e altre bande avevano annunciato una tregua, col patrocinio della Nation of Islam).
A fronteggiare le forze dell’ordine — però — non c’erano killer, bensì centinaia di adolescenti che hanno cominciato a lanciare sassi contro gli agenti. Con le cariche, la situazione è degenerata in battaglie campali nei quartieri circostanti in cui gruppi di ragazzi hanno distrutto decine di volanti sotto gli occhi delle telecamere e dei cronisti che deploravano le azioni dei «vandali». Come sempre in questi casi, la gente si è riversata nei pochi negozi del quartiere improvvisando «spese proletarie», la polizia ha chiamato rinforzi, il governatore ha dichiarato lo stato di emergenza e ha mobilitato la Guardia nazionale, gli uffici hanno mandato a casa gli impiegati, l’università ha chiuso e allo stadio di baseball è stata rinviata la partita degli Orioles.
Lo «sdegno» per le «violenze del branco» — subito espressa dagli organi ufficiali — è corrisposta al copione liso delle «race riot», da Watts a Ferguson: i soprusi di decenni, le morti e gli abusi ignorati, fin quando la rabbia scoppia inevitabile e si serrano indignati i ranghi contro la «violenza insensata» che dilaga. Manca — anche stavolta — lo stesso sdegno per l’elenco infinito di violenze e soprusi della polizia, una lugubre litania contro cui dallo scorso autunno si è mobilitato il maggiore movimento per i diritti civili in 40 anni. Un’ipocrita omissione di cui la liberatoria anarchia di Baltimora è il sintomo e non la causa.
fonte: il Manifesto
http://ilmanifesto.info/scene-di-rivolta-sociale-a-baltimora/