Cos’ha in comune il pescatore di Fabrizio De André con un ristoratore finlandese di mezza età e di dubbia fortuna?
Beh, Kaurismaki è sempre stato interessato e solidale con i diversi, fossero gli strani Leningrad Cowboys dai capelli e dalla scarpe a punta, o la piccola fiammiferaia da fiaba nordica, o il lunatico suicida indeciso che affitta un killer per farsi uccidere, o i ristoratori sfortunati di Nuvole in viaggio. Dal suo ultimo film, Miracolo a Le Havre, si sono aggiunti ai diversi più o meno autoctoni (già Vita da bohème raccontava ad esempio di immigrati di varia nazionalità) gli ultimi contemporanei, gli stranieri, i profughi, i clandestini, gli irregolari, o comunque li si voglia chiamare, in una declinazione terminologica che spesso acquista un’immediata sfumatura semantica e ideologica.
A costoro appartiene Khaled, che all’inizio del film, in una delle sequenze a più alto tasso simbolico, erge la testa e poi emerge completamente da un mucchio di carbone, il corpo e il viso coperti da fuliggine nera. Arrivato casualmente in Finlandia su una nave-cargo, non si nasconde e decide di chiedere asilo. Nelle sequenze più politiche del film, solo il quasi impercettibile trasalimento delle sopracciglia dell’addetta all’intervista al profugo – che racconta della guerra, dei cadaveri dei propri cari estratti dalle macerie della propria casa (proprio come lui è “rinato” dal mucchio di carbone), del lungo viaggio pieno di dolore e di insidie da Aleppo a Helsinki, della sorella smarrita lungo il percorso, delle violenze e delle ingiustizie subite – tradisce una minima partecipazione emotiva alla sua vicenda umana. Il visto gli sarà negato, poiché la burocrazia finlandese ritiene che nella Siria martoriata la situazione non sia poi così e grave e pericolosa; salvo poi assistere nella sequenza immediatamente successiva all’accorato resoconto telegiornalistico dei lutti e delle distruzioni che affliggono il paese sconvolto da una sanguinosissima guerra civile.
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