Contro il rinnovato attacco alla Costituzione

Pubblichiamo il prezioso studio di Vittorio Gioiello scritto per questo foglio on line su proposta del nostro collaboratore Enzo Nova.

Nell’ultimo ventennio le forze politiche di “centrodestra” e di “centrosinistra” hanno avanzato incessantemente proposte di “riforma costituzionale”, asserendo che fossero indispensabili per adeguare l’ordinamento nazionale alle evoluzioni dell’ordinamento dell’UE. Anzi si è affermato che le suddette “riforme” fossero indispensabili, visto il carattere datato della nostra Costituzione.
Per sgomberare il campo dal carattere strumentale di tale affermazione, penso non sia fuori luogo ricordare, anzi è elemento da porre con forza nel dibattito politico che:
– la costituzione degli Stati Uniti risale al 17 settembre 1787;
– in Inghilterra, è noto, non esiste una costituzione, ma un insieme di norme che risalgono alla “Magna Carta Libertatum” del 1215 ed al “Bill of Rights” del 1689;
– la costituzione francese (susseguente ad un colpo di stato) è del 4 ottobre 1958;
– la “Legge fondamentale” tedesca (così è definita) risale al 23 maggio 1949.
In nessuno di questi paesi si ragiona su pretestuose “riforme istituzionali”.
Smontato, perciò, il castello della “pretesa” innovazione, è altro il terreno su cui si deve ragionare. Ed il dato su cui soffermarsi è costituito dalla dislocazione di quasi tutta la sinistra sull’esclusivo terreno – acritico e subalterno – dell’ideologia delle classi dominanti, dell’ideologia dominante in questa fase storica, che ha nelle categorie governabilità, stabilità, efficienza le proprie parole chiave.
E’ il linguaggio politico su cui si costituisce nel 1973 (la data, come al solito, è emblematica) la Trilateral, che, come è noto, è una delle organizzazioni con cui i gruppi di potere internazionale definiscono le strategie a livello mondiale.
Ed il “piano di rinascita democratica” della loggia massonica P2, nel 1975, si articola sullo stesso terreno, con ulteriori elementi di degenerazione autoritaria.
Fatta questa premessa, vi è da rimarcare un elemento distintivo di tutte le proposte di revisione, presentate nel corso delle precedenti legislature, è il perseguimento dell’obiettivo di potenziare la “governabilità istituzionale” e la “stabilità economica”, depotenziando il ruolo “centrale” del Parlamento, al fine di rafforzare il ruolo del Governo all’interno della prospettiva efficientistica e tecnocratica che domina la scena europea. Predisporre “un quadro di comando verticale” svincolato dagli ostacoli della dialettica sociale e quindi dalle istanze delle classi lavoratrici, considerate incompatibili con le strategie dei “mercati finanziari” e delle “grandi agenzie internazionali”.
Nella stessa logica si muove l’attuale disegno di legge di revisione costituzionale, infatti nella relazione introduttiva si legge che la “stabilità dell’azione di governo” e l’efficienza dei processi decisionali” costituiscono “le premesse indispensabili per agire, con successo, nel contesto della competizione globale”.
Prima di entrare nel merito della proposta, va rilevata una distorsione procedurale, perché è la prima volta che un disegno di legge di revisione costituzionale non è frutto di un’iniziativa parlamentare, ma del presidente del Consiglio Renzi e del Ministro per le riforme Boschi.
Inoltre, è una revisione costituzionale che, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n.1/2014 – dichiarativa dell’incostituzionalità del Porcellum – non avrebbe dovuto essere nemmeno presentata in questa legislatura.
Entrando nel merito e valutando l’attuale proposta di superamento del “bicameralismo paritario”, non si può non rimarcare come le complesse questioni da essa evocate, siano state già affrontate e risolte dai nostri Costituenti, in una prospettiva opposta a quella del rafforzamento dell’esecutivo e della stabilità del governo, ossia nella prospettiva della valorizzazione del ruolo delle forme organizzate del pluralismo sociale e politico e specie dei partiti considerati come strumenti di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori alla determinazione degli indirizzi concernenti l’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, 2° co., C.).
La Costituzione ha, infatti, riconosciuto piena rilevanza all’esigenza di garantire alle minoranze spazi di effettiva agibilità nel Parlamento, per porle in condizione di svolgere un ruolo attivo non solo nella fase elettorale, ma anche e soprattutto nella fase di determinazione della politica nazionale (art. 49 C.).
Sulla base di queste premesse, i Costituenti hanno scelto di superare la storica contrapposizione tra “Camera alta” e “Camera bassa” (caratterizzante storicamente il modello anglosassone) per introdurre la peculiare innovazione del sistema bicamerale “paritario”, caratterizzato dall’elettività dei deputati e dei senatori e dall’eguaglianza delle funzioni delle due Camere , perché fondato sul principio unificante della sovranità popolare che implica un “coordinamento” e non una “separazione” tra i poteri, il quale deve essere svolto da un Parlamento posto al “centro”, non solo del sistema delle assemblee elettive, ma anche del complessivo sistema istituzionale, compresi quindi il Governo e il Presidente della Repubblica.
I Costituenti non hanno ritenuto, inoltre, di fissare limiti stretti in relazione al numero dei componenti delle Camere, perché consapevoli del fatto che la riduzione del numero dei parlamentari restringe le possibilità di scelta e quindi gli spazi della rappresentanza, rischiando di escludere dalla sfera pubblica le voci dei cittadini, specie quelle più scomode per i poteri politico-economici dominanti.
Essi non considerarono pertanto prioritarie le esigenze connesse alla efficienza e alla rapidità delle decisioni rispetto a quelle del pluralismo politico, sociale e istituzionale, perché ritennero che la forza del Parlamento in un sistema democratico derivasse principalmente dalla sua capacità di rappresentanza.
Parimenti incostituzionale appare il disegno di legge in materia elettorale concordato nell’ambito del patto Renzi-Berlusconi senza considerare le indicazioni contenute nelle motivazioni della sentenza n.1/2014 della Corte costituzionale, che ha stabilito che “il principio di eguaglianza del voto” costituisce un “principio fondante della nostra Costituzione”, il quale esige che nel circuito democratico definito dalla Costituzione, l’esercizio dell’elettorato debba avvenire in condizioni di parità, poiché ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari dignità alla formazione degli organi elettivi.
Se il disegno di legge in materia elettorale frutto dell’accordo Renzi-Berlusconi – che fa rivivere sia pur peggiorate le previsioni del “porcellum” – fosse approvato, si assisterebbe alla reiterazione di un “colpo di stato” tutte le volte che il corpo elettorale sarà chiamato a votare, perché verrà ogni volta vilipeso, truffato e ripudiato un principio fondante della Costituzione, dello stato di diritto, della democrazia e della civiltà giuridica, ovvero il principio di libertà e di eguaglianza del voto sancito dall’art. 48, 2° co.,C.
Il disegno di legge presentato dal Governo viola infatti sia il principio della “libertà di voto” perché prevede le “liste bloccate”, sia quello di eguaglianza perché prevede un “premio di maggioranza” esorbitante che potrebbe consentire a una lista che ha raggiunto il 30% dei voti di ottenere il 53% dei seggi, sottraendoli alla rappresentanza dei due terzi degli elettori.
A ciò si aggiunga la previsione di “soglie” di entità altrettanto abnorme da vanificare i voti di milioni di elettori che non si riconoscono in nessuna delle due aggregazioni supposte maggiori.
Inoltre, vista l’abolizione del Senato. il partito che vince le elezioni con un pugno di voti di scarto, disporrà di una maggioranza spropositata in un Parlamento ridotto ad una sola Camera.
Il “mattarellum”, il “porcellum” e l’ “Italicum” si pongono quindi nel solco tracciato dalla “legge truffa” con cui le forze contrarie all’attuazione della Costituzione tentarono, già cinque anni dopo la sua entrata in vigore, di porre le premesse per un passaggio ad una “democrazia autoritaria”.
Va riaffermato il criterio che vede nel principio proporzionalistico lo strumento per realizzare in modo integrale il valore del pluralismo sociale, politico e istituzionale, pertanto rappresenta un principio “generale” espressivo dell’essenza del nostro ordinamento, come si desume dal fatto che risulta richiamato in varie disposizioni costituzionali e specie nell’art. 39 C. volto a potenziare il pluralismo sindacale.
L’approvazione di un ordine del giorno favorevole al sistema proporzionale (o.d.g. Giolitti), testimonia del resto l’avversione dei Costituenti per il sistema maggioritario che, nelle fasi precedenti si era rivelato inidoneo “a fare entrare nelle istituzioni le molteplici voci del Paese e a farle contare nella formulazione e nella attuazione dell’indirizzo politico”.
La rappresentatività delle istituzioni fu considerata pertanto come la chiave per cogliere in modo continuo e ravvicinato i bisogni della collettività.
Se è vero che la scelta del sistema elettorale condiziona le caratteristiche della forma di Stato e della forma di governo, si possono comprendere le ragioni per cui i Costituenti hanno considerato il sistema proporzionale non come un mero meccanismo di traduzione dei voti in seggi, ma come lo strumento necessario per imprimere l’impulso al processo di trasformazione dei rapporti politici, economici e sociali nella direzione indicata dall’art. 3, 2° co., C.
Il metodo proporzionale – legittimato dall’“o.d.g. Giolitti” – fu infatti adottato per l’elezione dell’Assemblea costituente e in seguito per l’elezione del primo Parlamento repubblicano, perché venne riconosciuto come lo strumento più idoneo per collegare, in modo coerente, il suffragio elettorale al ruolo dei partiti di massa, del Parlamento e delle assemblee elettive locali in una prospettiva di collaborazione unitaria fondata sui valori e sui fini della Costituzione.
Esso fu adottato in seguito per le elezioni dei Comuni, delle Province, delle Regioni, perché ritenuto conforme alla concezione di uno “stato-comunità” incentrato sul principio della “sovranità popolare”.
E’ utile ricordare che il precedente tentativo berlusconiano di riforma autoritaria, basato sul premierato e sul rafforzamento del potere esecutivo con indebolimento delle prerogative del Parlamento, fu sottoposto nel giugno 2006 a un referendum confermativo popolare e fu clamorosamente bocciato: NO 15.783.000 (il 61,29 %); SI 9.970.000 (il 38,71 %).
Questo eccezionale precedente (paragonabile solo alla vittoria nel referendum sul divorzio del 1974) può e deve essere lo stimolo per una nuova battaglia in difesa della Costituzione, che riunisca tutte le forze coerentemente democratiche del paese.

Vittorio Gioiello è il direttore del Cespi (Centro studi politici internazionali) stimata associazione culturale che ha sede a Sesto San Giovanni. In veste di studioso di temi economici, politici, culturali ed istituzionali ha collaborato e collabora con numerose riviste specializzate(“Cassandra”, “GramsciOggi”, “Fenomenologia e società” ecc.).