Pubblichiamo la prima parte del Diario di Roberto Pennasi del suo viaggio in IRAN (nelle prossime settimane proseguiremo la pubblicazione)
24/4/2014
Stanotte si arriva molto tardi in albergo a Teheran e c’è tempo solo per poche ore di sonno. Ricordo vagamente la reception. Una cosa mi è rimasta in mente: l’atrio con una grande struttura a triangolo rovesciato, che mi ha fatto pensare al Louvre. Guardo fuori ed è tutto avvolto da una nebbia sottile che dal nono piano permette di vedere bene solo alti minareti silenziosi, come avvolti nel sonno, e alte montagne vicine ed innevate. Facciamo il giro in città ed io ascolto nel caldo torpore del bus la voce di chi ci accompagna.
Teheran, il cui nome significa città dei platani, ha una popolazione sconfinata. 14 milioni di abitanti che diventano 16 con l’arrivo da fuori per lavoro. Ciò comporta una grande quantità di costruzioni su un terreno ad altitudine variabile tra i 1200 e i 1600 metri sul mare.
Si visita il Museo Archeologico e il Palazzo Golestan. Nel primo bei reperti di epoche varie, che, con la percezione di un antico mistero, ti portano al ricordo di quelle civiltà fonti di tutto il nostro passato. Palazzo Golestan con i giardini, il trono in pietra, gli specchi, i vetri, le maioliche ti avvolge nel ricordo dello splendore di allora e par quasi vederlo abitato con i suoi sfarzi e la sensazione di potenza e ricchezza che doveva dare a chi vi accedeva. Un fresco vento all’esterno rende più piacevole andare per giardini lì intorno.
Si pranza e mi aspettavo un cibo piccante, nonostante le rassicurazioni della guida. In realtà è il contrario e, persino per noi occidentali, è un poco scipito. Entrando nel Palazzo della Ceramica e degli Specchi ci accoglie una splendida scala in legno con elegante intarsio, che si sdoppia allargandosi ai due lati. L’architettura del palazzo risente di influenze diverse che si fondono in uno stile suo proprio. All’interno vetri e statuine da scavo deliziose e fantastiche per semplicità e insieme per ricca immaginazione.
Il pullman ci porta all’aeroporto, mentre io col sole basso negli occhi ascolto Hassan a fatica, lottando col sonno. Fuori un traffico intenso e caotico che non rispetta nemmeno il senso di marcia. Le moto saltano sui marciapiedi già stretti, suonando e sfiorando chi sta scendendo o salendo dai bus. Ovunque negozi all’aperto, tutto in esterno. A tratti si aprono piazze e mercati.
25/4/14, AHWAZ
Stamane risveglio precoce. Guardo dal secondo piano il fiume che scorre lì sotto. Il pullman, più tardi, lo costeggia per un tratto, poi ampie aree verdi, prati e poche persone in giro. Una piazza con palme, piante e grande fontana. La città si distende pianeggiante e ariosa. Già si coglie un po’ ovunque in questo paese la voglia di verde, di spazi, come un desiderio di agio e di libero movimento. Passiamo col ponte su un largo fiume. Portandosi fuori città compaiono prefabbricati e scheletri di case incompiute e di capannoni. Più oltre una centrale elettrica e ciminiere con fumo e con fuoco su in cima, in distese piatte, soltanto a tratti con terreno a coltura. Qui il petrolio sembra in effetti impegnare un po’ tutto: estrazione, trasporti e intorno case e capannoni a sostegno. Ci fermiamo per la tomba di Elain: profonda e lunga caverna a volta. Intorno gli scavi di una necropoli. Poi il terreno diventa ondulato, predesertico, con greggi di pecore chiare e scure, mentre rotaie di treno ci affiancano e poi le incrociamo. Vedo ad tratto un animale seminascosto. A me pare una volpe e mi dicono che qui ce ne sono. A tratti uomini insieme fermi nel sole, neri e coperti. Tra alberi bassi e sparsi con ciuffi d’erba diffusi un gruppo di mucche guardate dall’alto da un uomo in motocicletta. Poi bufali ed alveari e un bimbo che da un villaggio saluta con mano, mentre intorno giallo brunastro.
Si visita una Ziggurat in parte ricostruita, maestosa e misteriosa nella sua struttura a più piani protesi all’insù. Luogo di culto e insieme cittadella, color bruno mattone contro un cielo pieno d’azzurro. Simile a poche altre sparse nel mondo, forse a simboleggiare una grande civiltà che tutto globalizzava, o forse più semplicemente e credibilmente, una normale aspirazione umana ovunque esistente per il trascendente, che alzandosi da terra, crea una speranza di continuità al di la della morte e insieme a sentirsi significati e protetti da un Dio.
Il deserto mi affascina sempre (dal pullman poi non si associa al disagio dello starci dentro!) e ogni volta mi da un senso di infinito.
Susa, con tanti resti del passato e una colonna a metà ancora in piedi, è l’antica capitale di un regno persiano. Si fa un lungo giro in un caldo che schianta. Ristora e da forza nel corpo e nella mente il pensare di essere in luogo di tale importanza passata.
- Daniele è un’alta struttura a forma di pigna, posta di fianco ad un fiume. Togliamo le scarpe per entrare. All’interno la tomba e intorno uno spazio angusto con uomini in preghiera, appoggiati alla grata che circonda il simulacro o distesi per terra. Ti chiedi se pregano o riposano al fresco, ma in fondo è comunque un momento di meditazione, purtroppo assai raro nel nostro mondo di oggi. Le donne in altro spazio in netta separazione.
Shushtar (città dei ponti) è piacevole con portici vecchi, i ponti sassanidi e negozi chiusi per il venerdì, che però si riaprono verso sera. Dall’alto vediamo delle cascatelle in gola profonda, là dove edifici e due mulini ad acqua, un tempo usati per lavare tessuti, sono ora resti di un lontano passato. Intorno un intenso verde con piante e case a ridosso dello strapiombo o alte su in cima, piccole contro il cielo, mentre un sole impietoso ci picchia addosso e il sudore ci scende sul volto e ci bagna la schiena.
Dopo cena passeggio sul lungo fiume. Molti giovani giocano, fumano, ci chiamano cercando attenzione. Si parla tra noi nel caldo ora acquietato.
26/4/2014
Si parte da Ahwaz correndo a lato di un largo fiume, il Karum, che si unisce più avanti con il Tigri e l’Eufrate nel Shat El Aram. Lungo le sponde per un breve tratto parchi da gioco per bimbi, animati da figure di varia sembianza e cerchi diversamente disposti, ad intreccio.
Si sosta a Iseh. La città ha ampi spazi con palme e fontane che danno nell’insieme un senso di ricchezza dovuta al petrolio, che qui è abbondante. Attraversiamo un deserto con molti pozzi del prezioso oro nero, in un terreno piatto o leggermente sbalzato, grgio-giallasto, con rari ciuffi di erba e nient’ altro, se non oleodotti che corrono lunghi e appiattiti al terreno. Il tutto ha un suo fascino, pur nell’aspetto un po’ infernale e con le grandi spaccature nel terreno e la poca erba a filo di terra.
Ora, sul fondo di uno spaccato, c’è una lunga cresta continua, come una piccola catena montuosa. La strada su cui corriamo è semivuota e intorno sul pullman c’è un grande parlare. Una striscia di verde serpeggia improvvisa sul terreno grigio, con pecore scure, ammassate a brucare. Passiamo tra due alte sponde di terra a strati diversi, come in un tunnel mozzato su in alto. Poi domina il giallo in questa alternanza continua di colori. Mi coglie, assorto, una nostalgia di casa con i suoi affetti. Mi sento tranquillo pensando a nonna Gisella. Ho tanto temuto per lei e ora ho notizie più tranquillizzanti sia pure limitate a queste brevi giornate.
Si avanza in zone che sono sempre più smosse, aspre e che diventano rapidamente montagna. Si raggiunge il passo con ripida strada e con rocce a ridosso, di forme diverse. Gole profonde si aprono ovunque, mentre intorno il verde ora è vario, fitto o rado su roccia, su piano o su terreno a sbalzi, come costole sporgenti di monte. Si procede a rilento, per camion pesanti che avanzano con grande fatica.
Pranziamo in casa islamica, tutti seduti per terra, con cibi portati e altri comprati. C’è tonno, cetrioli e fagioli con uova. Le gambe allungate ed i piedi nudi, nel fresco. E’ tutto molto semplice e frugale, ed è una novità che per oggi va bene. Si ride guardandoci e allungando le braccia per prendere il cibo. Tornando per strada c’è un susseguirsi di gallerie sul fondo di grandi spaccati, dove stiamo correndo tra alte pendici a picco o a lento degrado. Si arriva sul tardi a Isfahan. Ci danno le stanze a rilento e la cena si allunga nel tempo. A mezzanotte arriviamo nel letto.
27/4/14, ISFAHAN
Un fiume in secca attraversa la nostra città. Han deviato le acque che vi affluivano usandole per vari scopi e rendendo così il letto del fiume. Il suo largo alveo è ormai un greto di sassi e cespugli. E pare al mio occhio deluso una grande bocca aperta e riarsa. Penso a cosa sarebbe se fosse ancora con acqua, mentre lo sguardo si ferma in questo vuoto fondale, tra i grandi e piccoli sassi e le rare persone che a piedi vi camminano dentro. Seduto sotto un’arcata di ponte che crea penombra e frescura, vedo una donna, vestita di rosso, che coglie erbe per cibo. Ovunque nel mondo la sopravvivenza richiede talvolta il doversi arrangiare. Son tanti i ponti creati e ora rimasti a scavalco del largo terreno vuoto più in basso. Passiamo su un ponte sassanide a undici arcate e se ne vede un altro con trentatre, più raccolte e più piccole, ma molto armoniche. Trentatre, come gli anni di Cristo (ci dice Hassan), costruito da un architetto cristiano in origine, poi fattosi mussulmano. Le sponde sono piene di alberi, fiori e arbusti diversi. Qui hanno il culto del verde, e insieme le piante danno un senso di fresco e di vita all’arido greto. Visitiamo il quartiere armeno di Jolfa che prende il nome dall’antica città armena rasa al suolo per trasportarne tutti gli abitanti, grandi artigiani, ad Isfahan nel ‘600 a costruire la allora capitale della Persia Safavide. Accanto alla piccola chiesa un piccolo nucleo con posto preghiera, cortile e con simbolo del genocidio del 1915. Ci sono corone in ricordo di quanto passato. All’interno un giudizio universale insieme a tanti altri dipinti. Bacheche contengono libri con scritture a mano, databili in un tempo compreso tra il 1200 e il 1400. E nella piazzetta davanti, la statua di chi per primo produsse scritti ed opere a stampa. Un grande negozio per tanti tappeti diversi di forma e colori, di lana e di seta e a disegni di varia fattura, complessi taluni, più semplici altri. Diverse sono anche le funzioni che devono svolgere: preghiere, ornamento e quant’altro. Richiedono tempi diversi per essere fatti ed hanno quindi prezzi diversi.
Giungiamo infine in splendida piazza Khomeini, già Meidun-e-sha. Bellissima per il grande spazio, per le sue moschee, i giardini, le musiche, i piccoli e grandi negozi. E’ un centro pulsante di vita, di gente che ti da allegria e insieme la calma ed ampi respiri, per la libertà di muoverti dentro e per il senso di grande apertura. Un insieme di misticità e di un sentire laicale.
Su un lato la grande moschea dell’Imam, con la sua facciata ad arco disteso, dove si inseguono tanti piccoli archetti diversi, a piastrelle azzurrate. Il minareto ha splendida cupola che ora è in restauro. Incrociamo un frusciare vivace e vociante di studentesse, tutte vestite di nero, con grandi occhi e una gran voglia di scambiare saluti e fotografie, mescolandosi col nostro gruppo. Svolazzano e gridano come tanti uccellini festosi e, al di la delle vesti seriose, ci sembrano pieni di gioia negli occhi e nei movimenti palpitanti di vita. Sui lati i quattro Iwan ricordano le diverse tendenze di spiritualità. Ovunque la piazza è piena di vari colori dal giallo all’azzurro.
In palazzo Alì Qapu (della musica), con lunga scala a chiocciola, saliamo fin sopra al secondo piano. Si domina dall’alto ed è un gran belvedere. Le stesse strutture qui dentro hanno forme che bene si sposano col fare musica, anche creando l’acustica giusta. A dimostrazione e per nostro piacere Hassan ci canta, ispirato, una poesia. E’ uomo poliedrico e fa di tutto per rendere piacevole il viaggio. La Moschea dello Sceicco è piccola, ma tutta a mosaico con colonne bordate di legno azzurro a spirale. Non ha minareto e neppure il cortile. C’è stanchezza nei piedi, ma non nella testa, perché il bello ti prende un po’ ovunque e non senti fatica. La gioia nei giovani occhi che incontri è contagiosa, mentre ascolti il racconto di chi ti accompagna, creandoti in testa un mondo di cose lontane e fantastiche. E poi c’è il bazar, come sempre dai mille colori, con volti e con voci insieme mischiate. E’ coperto da tante piccole cupole. Ti inoltri, ma mi sento più libero e meno schiacciato da tutto l’intorno al contrario di altri. Forse è il maggior sviluppo in altezza che da più sfogo al passaggio e assorbe rumori eccessivi.