di Alberto Burgio.
Il terremoto Brexit perdura e si capisce. Sull’Europa gravano nuvole nere, non solo per i contraccolpi economici che assillano gli statisti comunitari. C’è una marea montante di paura e rancore che le destre cavalcano, ansiose di lucrare sui frutti avvelenati del neoliberismo con cui le sinistre perbene si identificano da un intero trentennio. Eppure non è passata che una settimana dal grande shock e già dobbiamo tornare alle faccende di casa, dove incombe un altro referendum. La secca sconfitta del Pd nel voto di giugno ha definitivamente chiuso la prima fase del renzismo (quella, diciamo, del titanismo chiacchierone) e inaugurato il tempo, già preelettorale, della sua crisi organica. Di cui fanno fede le dure reazioni di quel che fu il gruppo dirigente dell’Ulivo.
Perse Roma e Torino, tenuta per un soffio Milano, trasformata Napoli nella terra dei leoni, Bersani, Prodi e D’Alema hanno sentito l’odore del sangue. E si sono cavate le loro brave soddisfazioni. Bersani ha subito affondato il colpo. La batosta alle amministrative, ha argomentato, viene dalla distanza del partito dal paese reale e dall’ostinazione a inventarsi un’Italia che non c’è. Lui l’aveva detto e la sua minoranza aveva messo in guardia l’avventato premier. Difatti poco dopo il giovane Speranza ha ribadito: da tempo era anche lui preoccupato e non scherzava mica quando si dimise da capogruppo. Pazienza se poi ha sempre votato la fiducia e ancora non sa che fare al referendum di ottobre.
Non interesserebbe granché questo cortile se non rivelasse due cose, una più triste e pericolosa dell’altra. La prima: costoro dimenticano un dettaglio: Renzi da dove viene? Non era nel gruppo dirigente del Pds-Ds, ma è o no anche lui una creatura dell’Ulivo e del Pd? E tanta algida estraneità nei suoi riguardi dov’era sei mesi fa, l’anno scorso o quando il gran rottamatore occupò manu militari Palazzo Chigi? Si dirà: ma come? e la nostra indomita opposizione interna? Appunto… Una sceneggiata che al dunque ha puntualmente sancito fedeltà alla ditta e lealtà al giovane nocchiero. Finché ha avuto il vento in poppa.
Così veniamo alla seconda e più seria faccenda. In una intervista al Corriere all’indomani del voto e poi in molte altre occasioni Massimo D’Alema, redivivo, si è vendicato con asprezza della campagna che l’aveva dipinto come un traditore. Ha dato a Renzi del fesso, oltre che del presuntuoso arrogante. E ha annunciato che voterà no al referendum confermativo. Vuole che Renzi vada a Canossa, ma perché? Con quali obiettivi politici concreti? Qui troviamo un’interessante risposta alla questione delle origini di Renzi e del renzismo.
Per D’Alema peccati capitali sono il doppio incarico del segretario-premier e la gestione monocratica del partito, sottratta ai dirigenti di lungo corso e affidata agli amici. D’Alema lamenta anche la perdita di voti nelle periferie e accenna talora alla disattenzione del governo verso i lavoratori e i poveri. Ma la gentrificazione della sinistra non l’ha certo inventata Renzi, né l’apologia della precarietà e della deregolazione. Infatti sembra veniale che Renzi impersoni il democratismo neoliberale, un blairismo di provincia tronfio e spaccone. D’Alema lamenta che il modello (Blair) non sia emulato, non che sia pessimo. E si duole che il giovane non porti rispetto ai vecchi, che hanno pur fatto buone cose: l’euro, il maggioritario, le privatizzazioni… Perché non anche Maastricht e Lisbona, il Titolo V e il pacchetto Treu, la macelleria delle pensioni e le guerre umanitarie?
Qualche giorno fa Antonio Scurati ha deposto una pietra tombale sulla cialtroneria e la supponenza renzista, ritraendo una nuova classe dirigente rampante e volgare, inetta e rapace. Ma la conclusione dell’articolo consegnava una chiave preziosa. Raccontava della chiusura della campagna elettorale di Fassino in una scuola di Torino: non però alle Vallette o a Falchera, bensì alla «Holden» di Baricco, dove la meglio gioventù cittadina sborsa 20mila euro l’anno per imparare l’arte dello storytelling.
Al cospetto degli ulivisti post-comunisti Romano Prodi sembra un ardito rivoluzionario. Lui non riduce il problema a una guerra tra capi-bastone. A suo parere il Pd agonizza perché si identifica con questo modello sociale distruttivo. Il voto, dice, ha fotografato le paure e la rabbia, è figlio della disuguaglianza, dell’ingiustizia crescente, del blocco dell’ascensore sociale. Non solo. Intervistato da Repubblica, Prodi ha proferito una bestemmia: ad alimentare l’ansia e la collera sarebbe di per sé l’economia di mercato che, sotto tutti i regimi, dissolve la classe media, cioè tende a proletarizzare il lavoro dipendente. È proprio quel che suggeriva Marx: peccato che il padre del Pd dimentichi che la sua creatura nacque proprio per mandarlo una volta per sempre in soffitta.
La narrazione di Prodi è comunque diversa da quella dei fans di Blair e delle lenzuolate, per i quali libero mercato e concorrenza restano garanzie di progresso e di democrazia. Qui siamo al punto. Renzi è in crisi dopo il 19 giugno. Speriamo che non si risollevi più fino al referendum, se non altro per salvare la Costituzione. Ma il suo infortunio, la sua parabola discendente e il suo fallimento complessivo somigliano tanto a un alibi che i suoi anziani colleghi di partito invocano per tornare in forze a imperversare, per riprendere imperterriti una storia decotta. L’onorevole Speranza – mai nome portò tanta ironia – ha chiarito qual è la bussola della sedicente sinistra democratica: cambiare il Pd per ricostruire il centrosinistra, e don Fabrizio di Salina non saprebbe dir meglio.
Ma c’è un ma. Le società sono corpi vivi sui quali le ferite incidono la carne e la memoria. Trent’anni di iniquità, di malversazione e sfruttamento sono troppi per tornare impunemente al punto di partenza come nel gioco dell’oca. Non siamo più negli anni Novanta, e il dilagare dei grillini sta lì a dimostrarlo.