Quale autonomia nel mondo globale?

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Il concetto di interdipendenza applicato alla politica estera compare nel dibattito internazionale in coincidenza con la fine della Guerra Fredda. Prima c’erano le aree d’influenza delle due superpotenze, USA e URSS: senza dubbio all’interno di ciascuna di esse esisteva un grado di interdipendenza più o meno accentuato, ma rimaneva sempre in posizione subordinata rispetto agli interessi della potenza dominante.

A cominciare dagli anni ’90, invece, nelle relazioni internazionali si afferma una progressiva interdipendenza globale che rende meno definito non solo il confine tra politica estera e interna, ma anche il confine tra interessi commerciali e interessi pubblici. Non che gli Stati forti non tutelassero gli interessi delle loro aziende sul piano internazionale (anzi!), ma fino a quel momento non si era mai verificato il contrario: cioè che fossero gli interessi economici a determinare in modo massiccio l’agire delle nazioni. E questo è uno dei risultati più tangibili dell’odierna globalizzazione, fenomeno che ha reso meno protagonisti gli Stati, chiamati costantemente a misurarsi con gli interessi del mondo dell’economia, a finanziarsi sul mercato, cercare nuove aperture commerciali, tutelare il proprio mercato interno.

Tradizionalmente si diceva che i Paesi post-coloniali del Terzo Mondo, al momento di operare scelte politiche, avevano le mani legate non solo per l’oggettiva debolezza ma anche perché la loro economia era determinata esclusivamente da forze esterne. La globalizzazione ha reso più liberi questi Stati, che hanno ridotto la loro dipendenza dalle ex potenze colonizzatrici costruendo – per esempio – rapporti commerciali con Paesi come la Cina. Paradossalmente, però, proprio la globalizzazione sta ora legando le mani alle vecchie potenze occidentali. Un caso macroscopico è quello dell’Unione Europea, dove questo insieme di interessi esterni alla politica incide fortemente sulle istituzioni comunitarie. Il Regno Unito sta sperimentando sulla propria pelle la difficoltà, non ben calcolata al momento del voto per la Brexit, di ritrovare una sua autonomia essendo stata per decenni una parte importante della rete costruita insieme ai partner europei.

Ma il paradosso più grande nel campo dell’interdipendenza è dato dai cambiamenti che il neopresidente statunitense Donald Trump, al netto di qualche gesto simbolico, dovrà necessariamente attuare rispetto agli impegni presi in campagna elettorale. Tutte le sue promesse in materia di politica estera e commerciale vanno infatti a cozzare con gli interessi degli Stati Uniti. Se introdurrà nuovamente i dazi per le merci provenienti dal Messico, danneggerà sia i consumatori statunitensi sia le aziende del suo Paese che negli anni hanno delocalizzato dall’altro lato della frontiera. Se dichiarerà la guerra commerciale alla Cina, rischierà ritorsioni da parte del primo creditore e sostenitore del debito pubblico a stelle e strisce. Se si ritirerà dal TPP, l’accordo del Pacifico, regalerà quell’importante area del mondo proprio a Pechino. Se taglierà fondi alla NATO, potrebbe dare il via a un ripensamento da parte europea nei confronti di quel dispositivo residuato della Guerra Fredda. E se davvero espellerà 10 milioni di clandestini, rischierà di danneggiare l’agricoltura di tutto il Sud-ovest del Paese, oltre a diversi settori dell’industria.

Insomma, anche Washington ha le mani legate. Questo perché gli USA sono stati il Paese nel quale, da Ronald Reagan in poi, la politica si è maggiormente allineata agli interessi dell’economia, dimenticando spesso quelli del popolo. Questa distorsione, che Trump ha compreso e cavalcato in campagna elettorale, potrebbe diventare il suo grande problema ora che deve governare. Farà gli interessi dei suoi elettori o quelli del “sistema”? Per uno nato e cresciuto nel mondo degli affari sarà un vero dilemma. Per la comunità internazionale potrebbe trattarsi di una vera rivoluzione, oppure della conferma dell’inconsistenza della politica nel XXI secolo.

Alfredo Somoza per Esteri, Radio Popolare

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