Pure la Ferrari, chi l’avrebbe detto

Un anno fa titolavamo “Se ci portano via anche il made in Italy”. Se ne sono portati via un altro bel po’. Intanto i cinesi mettono gli occhi sull’Ansaldo Breda che per anni ha insegnato al mondo come fare i treni, e Luca Montezemolo lascia Maranello accusando: «Anche la Ferrari diventerà americana». Come è già successo con la Lamborghini. Che si continua ad assemblare qua, certo, ma a onore e profitto altrui.

Prima, un lungo elenco di “passi pure lo straniero”. Vale la pena rinfrescare la memoria: Krizia parla cinese; Star, Gancia e Fiorucci spagnolo, come il Riso Scotti. I francesi hanno portato a casa un bel po’ di pezzi pregiati: Loro Piana, Fendi, Bulgari, Acqua di Parma, Gucci, Pucci e Bottega Veneta. In mano araba sono finiti Valentino e Missoni e ora pure Alitalia. Agli americani è passata Poltrona Frau, venduta – ironia della sorte – dall’avvocato Montezemolo. Naturalmente si potrebbe continuare con Orzo Bimbo, Buitoni, Perugina, Pernigotti, Amaro Averna, San Pellegrino, Birra Peroni, Parmalat… E per carità di patria qui si tace dell’epopea Telecom.

Già, ma perché il made in Italy se ne va? Per più di una ragione.

Un imprenditore cede per fare cassa e poi investire in finanza e in immobili, che è meno rischioso e più redditizio perché gli utili relativi vengono tassati la metà della metà. Perché non è facile crescere in un mercato sempre più vasto e difficile. O perché non vuole crescere e finire così nella tagliola dei vincoli sindacali, dei crediti bancari, degli equilibri manageriali. Spesso cede perché non ha preparato in tempo la successione, perché il mercato domestico è asfittico, o perché un socio straniero consente di allargare i mercati, spostare le attività all’estero e sfruttare migliori condizioni fiscali.

La Fabbrica Italiana Automobili Torino che diventa Fiat Chrysler Automobiles ne è l’esempio principe; la Ferrari costretta a perdere la sua autonomia per portare lustro e valore alla holding che si quota a Wall Street, la prova che mancava. Ma di Marchionne in sedicesimo ai quali Diego Della Valle potrebbe far arrivare i suoi strali (“Paghi le sue tasse personali in Italia”) ce ne sono a decine.

Intendiamoci, non è pratica solo italiana. Negli Stati Uniti capitalisti e protestanti per eccellenza dove “pagare le tasse è bello”, come predicava Tommaso Padoa Schioppa, l’elusione fiscale è piaga nazionale. Ma lì il governo non dà tregua ai furbetti dell’aliquota, a differenza di qui dove un procuratore generale applica la legge e spiega perché Dolce & Gabbana non evadono le tasse trasferendo qualche loro marchio in terra straniera. Già, perché il mondo è globalizzato e pensare di tenere un’impresa al di qua delle Alpi e del mare è assurdo. E allora, che senso ha parlare ancora di “italianità”? Forse uno ce l’ha.

Un Paese che non aiuta chi è costretto a vendere gioielli svela al mondo intero di non avere la forza per impedirlo, di non essere riuscito a creare un sistema-Paese, di rinunciare all’immensa forza d’urto che avrebbe il made in Italy se marciasse come un fronte unito e compatto, di non sfruttare investimenti e potenzialità. Per averne conferma, si legga l’inchiesta di Fabrizio Gatti svolta tra lo stabilimento ex Alfa di Arese, dismesso e destinato a investimento immobiliare, e l’insediamento Toyota a Burnaston con le sue regole e i suoi codici made in Japan.

Certo, lo spiega bene Riccardo Gallo, il made in Italy non sono solo linee di produzione, ma soprattutto centri di creatività, ideazione, design. Teste italiane. Giusto, ma sono teste singole di italiani geniali, non è l’Italia. Sono i figli del capitalismo senza capitali sul quale regnava Enrico Cuccia; che preferiscono la dimensione familiare; che non corrono in soccorso di Telecom o di Alitalia. E che, se capita, litigano, com’è successo nelle poche ore che hanno preceduto l’addio di Montezemolo. Finendo così, proprio loro che dovrebbero essere borghesia produttiva e classe dirigente, per scimmiottare i modi di quei politici e di quei partiti ormai spenti che disprezzano da cinquant’anni.

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(L’Espresso 18 settembre 2014, pag. 23, Bruno Manfellotto: “Pure la Ferrari, chi l’avrebbe detto”)