di Mauro Caron
Un’eroina protofemminista che rivendica il diritto al desiderio femminile nella repressa Francia degli anni ’50 o una stalker isterica e insensibile? Dal 13 aprile al cinema “Mal di pietre” di Nicole Garcia, con Marion Cotillard, tratto dal romanzo di una scrittrice sarda.
Il prologo è intrigante: nella sequenza del viaggio in auto bastano le inquadrature di pochi dettagli per restituire immediatamente il sapore di un’epoca.
Poco dopo, parte il racconto in flashbackdella storia di Gabrielle, alle prese con la prepotente scoperta del desiderio sessuale che sconvolge i suoi sensi e la sua mente: in una campagna estiva alla quale fa da costante sottofondo il frinire delle cicale e di cui sembra quasi di poter percepire i profumi si fa accarezzare intimamente dalle acque del fiume, si fa intravedere nuda alla finestra dai lavoranti della famiglia, nuda scrive febbrili lettere di passione erotica (in un connubio nudità-scrittura-passione che la assimila all’Antonia Pozzi del film di Cito Filomarino) ad un maestro di paese che non la desidera e la teme. Quando la famiglia giudicando sconvenienti i suoi comportamenti combina il matrimonio con un operaio catalano, la vita di Gabrielle si complica, e così quella del film.
Lei si nega al nuovo marito; e quando finalmente gli si offre, ma in tenuta da bordello e chiedendogli il pagamento della prestazione, siamo subito sull’orlo del ridicolo involontario. L’impostazione impressionistica della prima parte prende poi una piega da melodramma amoroso da sanatorio quando Gabrielle, afflitta da calcoli renali e ricoverata in una clinica sulle Alpi svizzere, allaccia, dopo una prima resistenza da parte di lui, una bollente relazione con un bel tenebroso, tutta iscritta sotto le insegne di Eros e Thanatos.
Se Gabrielle e Andrè (Sauvage!) si incontrano sul comune terreno della malattia, della sofferenza, sotto l’ala della morte incombente, in effetti Gabrielle sembra desiderare solo chi la rifiuta, e rifiutare chi la ama. Il rischio, per il film, è però quello di trasformare una possibile eroina protofemminista che rivendica il diritto al desiderio femminile, anche opponendosi violentemente contro le convenzioni socialmente accettate, a una molesta stalker insensibile e anaffettiva, cedevole alle lusinghe del fascino esotico del reduce dalla guerra indocinese, ma cieca all’amore concreto dell’esule della Guerra civile spagnola che, nonostante tutto, le sta accanto.
Lo spettatore sopporta cercando di concentrarsi sul viso e sul corpo della Cotillard, che soli sembrano in grado di conferire un senso alla storia, prima di venire definitivamente stroncato dal finale del lungo flashback: in cui si scopre che abbiamo rivissuto la vicenda attraverso il filtro dell’immaginazione e della memoria di Gabrielle, e che le cose non stanno esattamente come sembravano; anzi, il colpo di scena melodrammatico è tale da cambiare retroattivamente addirittura lo stesso genere di appartenenza del film…
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