Ocse: rischio pensioni per l’Italia. Penalizzati mamme e giovani
La spesa previdenziale è la più alta dell’intera area, mentre i contribuiti versati da lavoratori e imprese sono al 33%. A rendere più difficile la tenuta del sistema contribuisce la sentenza della Consulta sulle perequazioni. Boeri: “I giovani andranno in pensioni con il 25% in meno dei padri, pur avendo lavorato di più”
MILANO – Primi al mondo per spesa pensioni. Primi per aliquota contributiva più alta. Peggio: la sentenza della Consulta sulla perequazione delle prestazioni previdanziali rischia di avere un impatto “forte” sui conti pubblici. Lo mette nero su bianco l’Ocse nel rapporto “Pensions at a glance 2015” dove emergono tutte le criticità italiane con i rischi di tenuta del sistema con una serie di anomali preoccupanti a cominciare dal fatto che gli over 65 godano di un reddito “relativamente elevato”, pari al 95% della media nazionale, come Grecia, Spagna e Portogallo: tutti Paesi con una disoccupazione giovanile elevatissima.
Lo scenario peggiora se letto in controluce con una simulazione dell’Inps. Chi oggi ha 35 anni prenderà nell’intera vita pensionistica in media un importo complessivo di circa il 25% inferiore a quella della generazione precedente (i nati intorno al 1945) pur lavorando fino a circa 70 anni. La simulazione arriva dall’Istituto di previdenza sulla base di un campione di circa 5.000 lavoratori nati nel 1980, presentato dal presidente Tito Boeri. Il dato tiene conto anche degli anni di percezione dell’assegno, quindi considera il fatto che i giovani di oggi avranno la pensione per meno anni rispetto ai genitori. Ci saranno probabilmente problemi di “adeguatezza” dell’importo.
Quando si analizzano gli importi di pensione – ha spiegato Boeri nel corso della presentazione del Rapporto Ocse ‘Pensions at a Glance 2015’ – “bisogna tenere conto anche da quando questi assegni sono stati percepiti”. Se si guarda alla distribuzione per età alla decorrenza delle pensioni dirette del Fondo lavoratori dipendenti tre quarti sono state percepite prima dei 60 anni. Secondo le proiezioni Inps per i lavoratori classe 1980 solo il 38,67% la prenderà prima dell’età di vecchiaia, che per gli attuali 35enni significa nel 2050 a 70 anni di età. Sarà più basso quindi il trasferimento pensionistico complessivo (perchè percepito per meno anni), ma anche il tasso di sostituzione medio rispetto alla retribuzione che sarà intorno al 62%. “Si lavorerà più a lungo – ha detto Boeri – anche in rapporto alla speranza di vita. Le pensioni saranno del 25% più basse di quelle di oggi tenendo conto degli anni di percezione” e ci saranno, a fronte di una crescita del pil all’1% e di possibili interruzioni di carriera, “problemi di adeguatezza” dell’importo. Con il sistema contributivo inoltre, se non si metterà in campo uno strumento di sostegno contro la povertà come il reddito minimo, ci saranno “problemi per chi perderà il lavoro sotto i 70 anni”.
Le riforme. Tornando al Rapporto Ocse, nonostante le riforme avviate negli ultimi anni e la crescita prevista dell’età pensionabile in Italia “la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico richiede ulteriori sforzi negli anni a venire”. Secondo l’organizzazione parigina nel medio e lungo periodo “è necessario stimolare la partecipazione dei lavoratori anziani: ad oggi, l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro rimane la quarta più bassa dell’Ocse e il tasso di occupazione per i lavoratori di età tra i 60 e i 64 anni è pari a circa il 26%, contro il 45% in media dell’Ocse. Eppure – prosegue l’Ocse – molti pensionati oggi ricevono prestazioni pensionistiche relativamente generose nonostante un basso livello di contributi versati”.
Le mamma le più penalizzate. Il mercato del lavoro e il sistema pensionistico non stimolano le donne a dedicarsi alla cura dei bambini. L’Italia, sottolinea l’Ocse, è – insieme a Germania, Islanda e Portogallo – il Paese europeo dove una donna che trascorra cinque anni fuori dal mercato del lavoro per badare ai propri figli subirà, una volta in pensione, le conseguenze più pesanti in termini di abbassamento dell’importo dell’assegno, laddove in almeno un terzo dei Paesi Ocse una “aspettativa” quinquennale non avrebbe il minimo effetto sui trattamenti pensionistici futuri. A complicare la situazione c’è il fatto che il periodo di congedo per maternità concesso alle lavoratrici italiane non solo è abbondantemente inferiore alla media Ue, ma è accompagnato dalla scarsità di forme di congedo parentale per gli uomini. Se, ad esempio, una neomamma italiana avrà gli stessi giorni di maternità di un’olandese, il marito di quest’ultima avrà un periodo di congedo analogo a quello della moglie, laddove un italiano appena diventato padre può assentarsi, in media, per appena un giorno. In compenso, però, l’Italia, è tra i pochi Paesi a concedere contributi figurativi per chi ha figli a carico, anche qualora non interrompa l’attività lavorativa, contributi destinati a crescere con l’aumentare del numero dei figli.
I contributi. I contributi previdenziali sul lavoro dipendente in Italia al 33% sulla retribuzione sono al top rispetto ai paesi Ocse: il 23,81% per l’impresa, il 9,19% su lavoratore. Contributi obbligatori elevati, avverte l’Ocse, “possono abbassare l’occupazione complessiva e aumentare il sommerso”: alle spalle dell’Italia ci sono la Svizzera con un aliquota al 26,6% seguita dalla Finlandia (24,8%) e dalla Francia (21,2%). Il peso dell’assegno previdenziale è pari al 79,7% del salario medio, a fronte di una media Ocse al 63%.
Spesa pubblica. La spesa pubblica per la previdenza in Italia nel 2013 era al 15,7% del Pil, un livello quasi doppio rispetto alla media Ocse (8,4% del Pil) e la più alta dopo la Grecia tra i Paesi dell’organizzazione. Con la riforma del 2011, sono state adottate “importanti misure per ridurre la generosità del sistema, in particolare attraverso l’aumento dell’età pensionabile e la sua perequazione tra uomini e donne, ma l’invecchiamento della popolazione continuerà ad esercitare pressioni sul finanziamento del sistema”.
La Consulta. In questo senso la sentenza della Corte Costituzionale sul blocco della perequazione delle pensioni oltre tre volte il minimo (sopra i 1.500 euro al mese) nel 2012-2013 e i rimborsi parziali decisi dal Governo “avranno un impatto sostanziale sulla spesa pubblica”. Secondo l’Ocse “nel breve periodo ulteriori risorse sono necessarie per ridurre al minimo l’impatto della sentenza”.
Rischio giovani. A preoccupare l’Ocse è il fatto che molti lavoratori in futuro riceveranno trattamenti pensionistici più bassi di quelli versati oggi, un problema che riguarda soprattutto i più giovani che, trascorrendo lunghi periodi fuori dal mercato del lavoro, faticheranno a trascorrere una vecchiaia dignitosa, in particolare nel contesto di un sistema contributivo: “Tempo via dal lavoro significa tempo via dal sistema pensionistico”, si legge nel rapporto, “sebbene molti Paesi forniscano contributi figurativi durante periodi di disoccupazione, maternità o assenza per malattia, in futuro i trattamenti pensionistici saranno più bassi per molti lavoratori e per i più sfortunati tra i pensionati di domani, ovvero quei giovani che non riescono a entrare nel mercato del lavoro, le prospettive sono ancora più fosche”. Tuttavia, il Jobs Act dovrebbe garantire “una maggiore stabilità alle carriere lavorative”.
Età pensionabile. L’età minima per godere di un trattamento pensionistico di base in Italia è pari a 66,3 anni per gli uomini e 62,3 anni per le donne, con il primo dato superiore alla media Ocse (64,7 anni) e il secondo invece inferiore (63,5 anni la media Ocse). L’età della pensione minima per gli uomini italiani è la seconda più elevata dell’area Ocse e viene superata solo dai 67 anni necessari in Israele, Islanda e Norvegia. I più fortunati sono invece francesi e turchi, che possono andare in pensione, rispettivamente, a 61,2 e 60 anni. Per le donne l’età della pensione più elevata dell’area Ocse si registra in Norvegia (67 anni), Islanda (67 anni) e Portogallo (66 anni), mentre la più bassa si rileva in Turchia (58 anni), Polonia, Austria e Cile (60 anni in tutti e tre i casi).
Va sottolineato che la maggior parte dei paesi Ocse prevede la stessa età minima sia per gli uomini che per le donne, a partire da Germania (65,3 anni), Usa (65 anni) e Giappone (65 anni). Nel Regno Unito, invece, l’età minima è di 65 anni per gli uomini e 62 per le donne.
fonte: La Repubblica
http://www.repubblica.it/economia/2015/12/01/news/ocse_pensioni-128543541/?ref=HREC1-18