DAL NOSTRO CORRISPONDENTE DA BUENOS AIRES Il 12 settembre 2001 il quotidiano Le Monde e Il Corriere della Sera titolavano “Siamo tutti americani”, il 17 dicembre di quest’anno Barack Obama dichiarava “Todos somos americanos”.
Queste due frasi sono uguali, eppure diversissime. Il presidente U.S.A. che si rivolge in spagnolo al pubblico mentre annuncia di voler modificare i termini dei rapporti tra Washington e l’Havana non ha niente a che vedere con le servili traduzioni francesi e italiane del “we are all americans”, il giuramento di fedeltà che il neoidealista G.W.Bush imponeva agli alleati alla vigilia del lancio della sua guerra globale al terrore.
A più di tredici anni di distanza dagli attentati alle twin towers del 2001 il contesto internazionale è radicalmente mutato, e il suo successore, al contrario realista, se ne fa perfetto interprete quando si rivolge in spagnolo all’America Latina (e al mondo) per esporre i termini di una pace continentale di cui Washington è ora la prima ad avere bisogno.
Se il primo “we are all americans” allineava il mondo dietro alla bandiera a stelle e strisce, cancellando implicitamente l’esistenza di qualsiasi America oltre quella anglosassone, questo “todos somos americanos” è l’ammissione del ridimensionamento dell’influenza nord-americana nel mondo e nel continente e dell’inefficacia del suo principale corollario, l’unilateralismo.
I FATTI
Il 7 dicembre in un doppio messaggio televisivo trasmesso negli stessi minuti Raul Castro e Barack Obama annunciavano l’inizio della “normalizzazione” dei rapporti tra i loro due paesi, suggellato da uno scambio di prigionieri: i tre rimanenti dei “Miami Five”, gli agenti del controspionaggio cubano incarcerati dalla fine degli anni ’90, in cambio di Alan Gross, dipendente della agenzia USAID in prigione dal 2009 per attività “contro l’integrità territoriale” dello Stato caraibico.
Ciò comporterebbe la conversione delle attuali “sezioni di interesse” dei due paesi in vere e proprie ambasciate, la rimozione di Cuba dalla lista di paesi sponsor del terrorismo internazionale e un graduale ammorbidimento dell’embargo economico imposto all’isola dal 1962.
L’eventuale rimozione dell’embargo cinquantennale è ovviamente il punto focale della vicenda, come non ha mancato di ricordare il presidente Raul Castro (e la figlia Mariela, deputata e presidentessa del Centro Nazionale di Educazione Sessuale, che pur si è complimentata con Obama per la decisione) nel suo messaggio alla nazione.
Il costo stimato per l’economia cubana in mancati introiti è stato finora di decine di miliardi di dollari, con risvolti sociali e di sviluppo culturale e scientifico incalcolabili. Per fare solo un esempio, nel 2011 l’intervento USA impedì a Cuba di accedere alla sua parte di versamenti (4,2 milioni di dollari) del Fondo Mondiale per la lotta contro l’aids, la tubercolosi e la malaria. Ventidue votazioni consecutive all’assemblea dell’Onu hanno condannato l’embargo, l’ultima nel 2013, con i soli Stati Uniti e Israele contrari.
Ma la novità è che alle pressioni esterne si sono aggiunti rilevanti mutamenti di opinione sul fronte interno.
Anzitutto è venuta meno la schiacciante preferenza dell’elettorato per il mantenimento del bloqueo. Se nel 1991 solo il 13% dei cubani esiliati negli states voleva il ripristino delle relazioni diplomatiche, nel 2014 la percentuale ha raggiunto il 52% (con un 71% che ritiene che l’embargo non abbia svolto la sua funzione).
In seconda battuta vi è stato un vistoso smarcamento della classe imprenditoriale e di numerosi esponenti politici di spicco dalle posizioni pro-embargo. Da Hilary Clinton (che durante la campagna elettorale del 2008 dava ad Obama dell’incosciente per le sue aperture verso Cuba, per poi dichiararsi recentemente favorevole ad un cambiamento nelle relazioni con Cuba) in giù, si sono succeduti accorati appelli alla fine dell’embargo da parte di imprenditori di ritorno da visite ufficiali sull’isola (come Thomas Donohue, presidente della camera di commercio USA), di intellettuali, perfino un editoriale del New York Times poi ripreso da “Granma”, l’organo stampa ufficiale del partito comunista cubano.
Se i rappresentanti più in vista dei cubani eletti al congresso si mantengono rigidamente ostili al riallacciamento dei rapporti con l’isola (i democratici Robert Menéndez, Albio Sires e José Antonio “Joe” García, i repubblicani Rafael Edward “Ted” Cruz, Marco Rubio, Mario Rafael Díaz-Balart e Ileana Ros-Lehtinen) molti altri personaggi di primo piano, di cui alcuni insospettabili, sostengono l’orientamento del presidente, e gli chiedono di esercitare i poteri di cui è dotato per superare l’opposizione del parlamento.
Come il senatore democratico Patrick Leahy, che dopo aver svolto una missione di visita parlamentare a Cuba scrive ad Obama assieme al senatore repubblicano Jeff Flake, o Charlie Christ, ex governatore della Florida, per arrivare fino a Patrick Buchanan, ex candidato presidenziale degli ultra-conservatori repubblicani e all’ex capo dell’intelligence John Negroponte, responsabile da ambasciatore in Honduras del finanziamento dei contras contro il governo sandinista.
In questo nuovo clima di apertura nascono le iniziative per riaprire il dialogo tra i due paesi: il 16 maggio 2014 la sottosegretaria di Stato USA Roberta Jacobson incontrava a Washington il Ministro degli Esteri cubano Josefina Vidal Ferreiro, per raggiungere un accordo sullo scambio di prigionieri poi avvenuto in dicembre. Se per alcuni a “battezzare” l’inizio di un nuovo corso sarebbe stata la stretta di mano tra i presidenti Barack Obama e Raul Castro ai funerali di Nelson Mandela a Soweto, il 10 Dicembre 2013, per molti l’incontro fondamentale sarebbe avvenuto senza cubani ed altrove: in vaticano.
Tutti i commentatori concordano infatti nell’attribuire alla Santa Sede un ruolo fondamentale nelle negoziazioni per lo scambio di prigionieri, un dialogo iniziato con l’incontro a Roma fra Papa Francesco e Obama nel marzo 2014. Le trattative sarebbero poi state condotte durante tutto l’anno dal segretario di Stato John Kerry, l’ex nunzio apostolico in Venezuela Pietro Parolin e rappresentanti cubani, raggiungendo un accordo finale in ottobre. Difficile che questo faccia del vaticano la “Casa Bianca del Sudamerica, simbolo unitario, fisicamente centralizzato e spiritualmente globalizzato”, o che riveli un Papa “neobolivarista” pro Patria Grande Latinoamericana. Tantomeno che il futuro di Cuba si divida unicamente tra colonia Usa o “protettorato vaticano” (per un approfondimento critico sulla cultura politica di Francesco, vedi qui).
Certo è però che il nuovo protagonismo della santa sede, innestandosi su un processo di riapertura della società cubana alla chiesa cattolica in corso da alcuni anni, ha in questo caso costituito quel contraltare diplomatico in grado di contrattare con Obama una soluzione del problema prigionieri (e, forse, del bloqueo) favorevole a tutte le parti in gioco.
L’ANALISI
Questa svolta epocale nei rapporti tra Stati Uniti e Cuba è da leggersi senza dubbio come una vittoria diplomatica de l’Havana e dei suoi alleati sudamericani. La resistenza al bloqueo e ai tentativi di destabilizzazione statunitensi dell’isola caraibica ha messo a nudo l’inefficacia della diplomazia ostile di Washington, ottenendo anche il ritorno a casa di Gerardo Hernández, Ramón Labañino e Antonio Guerrero, agenti del controspionaggio cubano arrestati perché’ infiltratisi fra i gruppi che da Miami organizzavano attentati terroristici sull’isola e condannati con un processo farsa senza precedenti.
A dare il colpo di grazia alle pretese di unilateralismo USA nella regione è stato però il moltiplicarsi negli ultimi quindici anni di organismi sovranazionali da cui Washington è esclusa (ALBA, CELAC, CARICOM, oltre a tutti gli organismi solo sud-americani), stimolando una cooperazione continentale in cui l’Havana riveste un ruolo importante. Ruolo confermato recentemente dall’organizzazione degli incontri di pace Stato-Farc per la Colombia, di fronte alla quale il mantenimento nella lista “nera” degli stati terroristi appare sempre più stridente. Dopo la vittoria diplomatica ottenuta dall’Uruguay con il trasferimento il 7 dicembre scorso di sei prigionieri della prigione di Guantanamo era arrivato anche una sorta di ultimatum a Washington: se Cuba fosse stata rimasta esclusa, come avviene dalla sua espulsione nel 1962, dal prossimo vertice dell’Organizzazione degli Stati Americani dell’11 e 12 Aprile 2015 a Panama gli altri Stati l’avrebbero boicottato.
Obama ha, in un certo senso, capitolato.
Un altro aspetto fondamentale è invece il ritardo che gli Stati Uniti stanno accumulando nella “corsa all’oro” delle spiagge cubane.
A fronte degli investimenti brasiliani nel porto di Mariel, degli accordi con Russia e Cina e dell’imminente stipula di un accordo commerciale con l’Unione Europea (Primo investitore nell’isola e secondo partner commerciale) che rompe la “posizione comune” verso Cuba imposta da Aznar nel 1996, l’embargo statunitense risulta ormai anacronistico e controproducente per gli stessi interessi economici USA. Washington è stata infatti finora la più lenta a reagire alle riforme economiche avviate sull’isola dal 2011, rischiando di perdere nuovamente a favore di altre potenze la naturale influenza che la geografia gli accorda sull’isola, una sorta di “porta d’entrata” politica e geografica a tutto il continente sudamericano. La graduale apertura al mercato e agli investimenti stranieri inaugurata dal sesto congresso del partito comunista cubano hanno infatti destato grande interesse internazionale, e gli Stati Uniti non possono rimanere indietro proprio nel loro ex “cortile di casa”.
Non a caso l’annuncio di Obama è stato immediatamente seguito da una dichiarazione del ministro degli Esteri russo Lavrov, riportata anche da Granma, che si affrettava a ribadire che gli accordi di cooperazione economica e commerciale non verranno indeboliti dal riavvicinamento tra Washington e l’Havana, e che l’associazione strategica russo-cubana è “indistruttibile”.
Siamo quindi di fronte ad una scelta di realismo politico dell’amministrazione USA che risponde ad esigenze diplomatiche ed economiche che riguardano Cuba ma anche e soprattutto il rapporto con il continente americano nella competizione tra potenze per il suo controllo e sfruttamento.
A queste considerazioni si aggiungono infine quelle sulla figura di Obama, cioè sulla percentuale di scommessa politica individuale che sta dietro a questo riavvicinamento. Si è sottolineato come il presidente abbia aspettato il secondo mandato per intraprendere la strada del riavvicinamento, il momento politico in cui i presidenti a stelle e strisce tradizionalmente non pensano più alla rielezione ma “ad entrare nella storia”.
Si è detto che possa essere una mossa diretta a risollevarne l’immagine, fiaccata sul fronte interno ed esterno e che sia però sospetto che abbia annunciato il disgelo con l’Havana pochi mesi dopo aver perso la maggioranza al congresso, ponendo seri ostacoli all’implementazione di questo nuovo orientamento diplomatico.
Quel che è certo è che si tratta di una svolta politica che dà il senso di quanto i tempi siano cambiati. Un presidente democratico (e la sua potenziale successora, la pre-candidata alla casa bianca Hilary Clinton) possono parlare apertamente della risoluzione della “questione cubana” senza temere un tracollo di voti, il tema si è fatto trasversale ai partiti e ha perso quella validità internazionale che aveva durante la guerra fredda, acquisendone una tutta nuova. Nonostante scontati ostacoli e rallentamenti, la strada dell’apertura sembra ormai segnata.
“Se acabó’ la diversión, llego’ el comandante y mando’ a parar”.
Il divertimento (diversion) in questa famosa canzone di Carlos Puebla è quello dei gringos, gli statunitensi che avevano trasformato l’isola nel loro parco divertimenti, in una colonia non ufficiale. Il comandante che la ferma (la para) è ovviamente Fidel Castro, che coi suoi barbudos e le nazionalizzazioni restituisce sovranità a Cuba dopo secoli di colonialismo e decenni di regimi autoritari filo-usa.
Cinquantasei anni dopo il comandante è ancora lì a vigilare, anche se da tempo ha lasciato le redini al fratello Raul. L’eventuale termine del blocco commerciale introdurrebbe però una variabile del tutto inedita nella storia post-rivoluzionaria di Cuba, un nuovo tipo di relazione con le imprese e i cittadini statunitensi che potrebbe stravolgere la realtà economica e sociale dell’isola, una “controrivoluzione soft”.
La fine dell’embargo avvierebbe infatti un grande flusso di divisa straniera (soprattutto dollari) verso l’isola, che attualmente possiede riserve scarsissime, il principale problema di Cuba secondo l’economista Omar Everleny del Centro de Estudios de la Economía Cubana (CEEC). Questo afflusso sarebbe determinato dall’aumento esponenziale del turismo, dalle rimesse dei famigliari residenti negli Stati Uniti, il cui limite massimo è stato appena alzato da Obama a 2000 dollari ogni tre mesi, e dal mercato immobiliare. Ciò indurrebbe una crescita dell’occupazione nei servizi e un conseguente maggior fabbisogno di prodotti alimentari, da produrre o importare, con ingenti uscite di divisa straniera. Infine nel campo tecnologico vi sarebbe un’invasione di prodotti statunitensi, riducendo il peso di Cina ed Europa nelle importazioni.
La fine dell’embargo porterebbe quindi a Cuba dei notevoli vantaggi economici ma porrebbe anche nuove sfide rispetto alla convivenza fra il modello socialista caraibico e i nuovi rapporti di mercato con il potente vicino. Il consumo di massa potrebbe fare gradualmente la sua apparizione sull’isola, mentre l’ineguaglianza sociale potrebbe aumentare a seconda dell’accesso al mercato del dollaro che gli individui avranno. Infine, il turismo di massa favorito dalla facilitazione dei viaggi dagli Stati Uniti potrebbe trasformare l’isola in un nuovo resort a cielo aperto in mano alle catene internazionali di hotel e crociere.
Molte quindi le incognite per gli osservatori di sinistra. Dal ruolo che avranno questi nuovi ceti sociali nell’influenzare le politiche di gestione controllata del processo di apertura alla saldatura che potrebbe avvenire tra i nuovi imprenditori e la burocrazia statale. Sullo sfondo lo spettro cinese: un modello che rimane quello del partito-stato in politica, ma che si apre al libero mercato in economia, riducendo il ruolo di intervento pubblico ed aumentando le diseguaglianze, un nuovo orientamento che a pochi km dalle coste statunitensi potrebbe costare doppiamente caro, come ben sanno troppi paesi del centroamerica. In ogni caso per la sinistra latinoamericana questa nuova tensione tra il modello sociale che Cuba ha saputo costruire e la possibile fine dell’embargo con le sue implicazioni economiche è benvenuta, rappresentando una nuova sfida con la quale Cuba dovrà confrontarsi. Mantenere quelle conquiste sociali che così profondamente la differenziano dagli altri paesi dell’area e riallacciarsi al mercato statunitense e alle sue potenzialità senza snaturarsi. Nelle parole di Raul Castro: “costruire un socialismo prospero e sostenibile”
Dario Clemente