Il lavoro a monetizzazione crescente. L’aumento dell’occupazione di aprile non coincide con un aumento del Pil e del reddito. C’è il rischio che l’Italia ripeta l’errore delle riforme del lavoro degli anni ’90: decontribuzione e aumento della precarietà non aumentano la competitività. E alla lunga ci rimettono sia lo stato che il sistema produttivo
Commentatori e politici plaudono agli ultimi dati occupazionali diffusi ieri dall’Istat. Ad aprile 2015 rispetto al mese precedente gli occupati salgono di 159mila unità, e ben di 261mila rispetto ad aprile dell’anno prima. Si tratta di incrementi consistenti, +0,7% il primo in un mese e +1,2% il secondo in un anno.
Merito del Jobs Act dagli effetti esplosivi in un mese che si somma al vantaggio decontributivo previsto da tre mesi di ben 8.000 euro annuali e 24.000 triennali, sempre che le imprese non licenzino prima della scadenza dell’incentivo i nuovi assunti a monetizzazione crescente pagando una manciata di euro per l’indennizzo previsto per recedere dal nuovo contratto.
Ma c’è qualcosa, più di una in verità, che non torna in questi plausi.
Alcuni richiamano il rischio di una politica di assunzioni «drogate» della decontribuzione che costituisce un forte incentivo alle imprese a mettere a nuovo contratto lavoratori che possono essere licenziati presto e a basso prezzo appena l’incentivo cessa, e comunque alla bisogna. Una sorta di incentivo alla rovescia, ovvero a licenziare facile.
Altri più cauti non si fidano dei dati congiunturali dell’Istat, men che meno di quelli precedenti del Ministero del Lavoro, perché ritenuti troppo “ballerini” in una fase di cambio di regime delle normative sul lavoro, ed invitano ad aspettare almeno un medio periodo per vedere come occupazione e disoccupazione si stabilizzano “a regime”.
Noi vogliamo segnalare un qualcosa forse altrettanto preoccupante che si cela dietro questi dati, prendendoli per corretti.
Una crescita dello 0,7% in un mese e dell’1,2% su base annuale dell’occupazione richiederebbe un sottostante dato di crescita del Pil che possa portare a ritenere che ciò che vien creato è «buona occupazione» perché dietro c’è «buona produttività» e magari anche, si fa per dire, «buone retribuzioni».
Ma nell’ultimo anno i dati non ci confortano su ciò, anzi. Non abbiamo registrato crescita nell’ordine di più dell’1% del reddito nazionale nel corso dell’ultimo anno, e neppure nell’ultimo trimestre, oppure mese, una crescita sopra lo 0,5%.
Dal marzo 2014 al marzo 2015 il Pil è diminuito dello 0,29%. L’ultimo dato Istat sul Pil ha certo segnalato che su base trimestrale siamo usciti dalla recessione tecnica, ma la crescita si è attestata nell’ordine di un misero 0,3% rispetto al trimestre precedente, ed uno 0,1% rispetto al trimestre dell’anno precedente, a cui si aggiunge la previsione acquisita per il 2015 nell’ordine di una +0,2%. Una cifra un poco modesta se confrontata con il dato occupazionale. Per il 2015 d’altra parte lo stesso governo si tiene cauto, con una previsione di crescita dello 0,8%, rivista peraltro al rialzo, e le stesse istituzioni interazionali non si azzardano a fare previsioni migliori; nessuno va sopra l’1%.
Il dato occupazionale, incrociato con il dato sulla crescita del reddito, con le dovute cautele date dal fatto che non necessariamente il periodo temporale è identico in termini di mesi, segnala, o segnalerebbe per ragioni di cautela, che l’occupazione andrebbe a crescere più del reddito, e se ciò non appare infondato significa che la produttività del lavoro, e quindi, data la dinamica delle retribuzioni, anche la competitività, invece di crescere nel periodo avrebbero la malaugurata tendenza a diminuire.
E se la crescita della produttività, di cui già l’Italia detiene da oltre due decenni la maglia nera tra i paesi industriali, non solo ristagna (crescita zero) ma addirittura decresce, non è facile farsi facili illusioni su «buona occupazione» e «buone retribuzioni» per il presente e l’immediato futuro.
Quei dati occupazionali segnalano purtroppo, se presi come autentici — forse proprio perché son “drogati” dagli incentivi fiscali e dal contratto a monetizzazione crescente e facilità a licenziare — l’altra faccia della medaglia di questa presunta crescita quantitativa, ovvero il suo povero contenuto qualitativo.
Qualcosa di simile lo abbiamo già visto negli anni 2000. Le cosiddette riforme al margine del mercato del lavoro han fatto crescere in quel periodo il precariato, il lavoro a basse tutele e basse retribuzioni, ed a bassa produttività, nei servizi di mercato soprattutto, ma anche nell’industria manifatturiera.
L’esito è stato come è noto un crollo di competitività dell’imprese italiane e delle remunerazioni del lavoro.
Ora con il Jobs Act e l’incentivo decontributivo si intende sostituire quel lavoro precario con altro lavoro comunque a basse tutele con monetizzazione del diritto a licenziare. Purtroppo il rischio è che a pagare queste politiche di corto respiro non sarà solo il singolo lavoratore, ma l’impresa stessa, e il sistema produttivo, con lavoro di scarsa qualità e bassa produttività.
Invece di investire in innovazione con politiche industriali più lungimiranti, il sistema rischia di non uscire dalla sua trappola della stagnazione.
fonte: il Manifesto
http://ilmanifesto.info/nonostante-il-jobs-act-il-conto-non-torna/