L’Istituto della Enciclopedia Italiana – Treccani ha organizzato un Convegno nel 2018 durante i quale sono intervenuti: Massimo Bray che ha presentato; con la presenza di: Giuseppe Provenzano e Salvatore Biasco.
In questo articolo è disponibile la sintesi del Convegno redatta da Salvatore Biasco
Inoltre sono intervenute le seguenti personalità: Pierluigi Ciocca, Andrea Roventini, Gianfranco Viesti, Lucrezia Fanti, Massimo Mucchetti, Ugo Pagano, Laura Pennacchi, Giuseppe Surdi, Giacomo Bottos, Gianfranco Pasquino, Nicolò Carboni, Rosa Fioravante, Giorgia D’Errico, Andrea Ciarini, Chiara Saraceno, Paolo Borioni, Maurizio Franzini, Dario Guarascio, Chiara Mancini, Marina Mastropietro, Mattia Diletti, Alessandro Coppola, Walter Tocci, Romolo Calcagno, Giovanni Caudo, Vittorio Cogliati Dezza, Michele Grimaldi Roma, 13 luglio 2018 Istituto della Enciclopedia Italiana Sala Igea di Palazzo Mattei di Paganica
Pubblichiamo il video relativo al Convegno. E’ un Convegno che dura più di 7 ore e forse è difficoltoso seguire le immagini e ascoltare i concetti espressi dai vari relatori. Il tutto è molto interessante e per avere un quadro completo su ciò che è stato il contributo di tutti vi invitiamo a leggere qui di seguito la sintesi del Convegno redatta da Salvatore Biasco.
Comprendere e affrontare le trasformazioni
Il cambiamento in corso non ha eguali nella storia dell’umanità. È un cambiamento non solo antropologico e di modi di produzione ma anche dei modi di comunicare, di lavorare, di vivere e di espressione dei bisogni e di esercizio del potere. Entra nella percezione diffusa ed è fonte di insicurezze per il cittadino comune, ma non trova la politica ad intercettarlo e a dare risposte adeguate alle sfide che pone. E non trova la sinistra.
L’incontro nasce da una convergenza di interrogativi che giovani e meno giovani (riuniti nelle associazioni promotrici) si sono trovati a condividere su cosa di inedito ci riservi il futuro e con quale attrezzatura sia possibile governarlo da un punto di vista “socialista”. Ma non è stato concepito come un convegno sul socialismo, tanto meno sui suoi riferimenti tradizionali, né è un Convegno sull’analisi di ciò che non va nella società che si è formata negli ultimi trent’anni (lo sappiamo): è una riflessione congiunta dedicata, come dice il titolo, alle fratture che si prefigurano in un mondo a traino tecnologico e a regolazione ancora tributaria dell’eredità neo-liberista. Esse interrogano l’agenda della sinistra e pongono temi da affrontare che sempre più si porranno nella trasformazione di questa società. E se il punto di vista non assume una prospettiva “socialista” quale altra prospettiva può assumere?
Protagonista e promotrice dell’incontro, insieme al network Ripensare la Cultura Politica della Sinistra, è Sinistra Anno Zero, un’associazione, anch’essa informale, nata con un tratto generazionale (“non necessario e nemmeno forse voluto”, afferma Provenzano nella sua introduzione). Nata, come reazione al disarmo culturale della sinistra, all’assenza dei luoghi di confronto e riflessione, al rapporto non fecondo con la “generazione dei padri” (nella politica, nelle università, nella cultura, nei luoghi di lavoro); consapevole, tuttavia, che occorra ritrovare i fondamentali, concependo strumenti nuovi, ma anche ritrovando e reinventando quelli (ancora utilissimi) che qualcuno troppo frettolosamente definisce vecchi (Provenzano). Trova in questo una convergenza con un gruppo di studiosi di altra generazione che hanno preteso di mantenere viva una cultura critica.
Se non sappiamo cosa ci riservi il futuro, alcune dinamiche le abbiamo davanti. Probabilmente anticipano tendenze di fondo che dobbiamo quanto meno sforzarci di comprendere, con la convinzione che non tutto ciò che esse ci lasciano intravedere è esogeno e deve essere accettato passivamente. Guai se non pensassimo di poter intervenire sugli sviluppi della tecnologia, sugli esiti nel mercato del lavoro, sulla spaccatura della società, sulla debolezza dei corpi intermedi, sul declino del partito politico, sull’indebolimento delle istituzioni che creano cemento, sul consumo dell’ambiente e sugli indirizzi di produzione (Biasco). La stagione migliore della sinistra si è avuta quando ha avuto il coraggio di pensare oltre le logiche esistenti e immaginare una società che forzava la realtà, traendone le idee forza per quel percorso di trasformazione di cui nei momenti più alti è stata protagonista. Questo è il sentire comune che ha ispirato il “confronto” tra le due associazioni.
Ovviamente l’incontro sceglie alcune tematiche, affrontando le quali si può trarre l’idea di quale impostazione assumere per le tante (e consequenziali) fratture che non hanno potuto avere trattazione in una sola occasione di incontro. In questa sintesi, viene data più enfasi alla parte propositiva dei singoli interventi, facendo torto alle tante ricchissime analisi che sono state proposte al dibattito e a chi, esercitando il prezioso ruolo di dirigere le discussioni, si è trovato costretto a imporsi un’autolimitazione.
Il lavoro nell’età dell’algoritmo
Tecnologia e lavoro è il tema che preordina gli altri, se non altro per la sua rilevanza politica e per l’impatto sulla generazione che più recentemente è entrata (o si accinge a entrare) nel mercato del lavoro. È un tema dominato dalla diffusione degli algoritmi come strumento che modella il processo lavorativo e informa la vita e la struttura sociale. E, infatti, la domanda che pongono D’Errico e Mastropierro – proprio da un punto di vista generazionale – è se sia un modo giusto quello di partire da alcune categorie di lavoratori, come sta facendo il governo, e non dalla trasformazione del modo stesso di lavorare e dal lavoro precarizzato in senso ampio, o dall’impatto occupazionale delle nuove tecnologie.
Sta di fatto, come rileva Ciarini, che molte analisi ci dicono che la digitalizzazione dei processi produttivi, nonché l’intelligenza artificiale – e soprattutto la velocità del progresso tecnologico – potrebbero portare ad un bilancio negativo dal punto di vista occupazionale tra lavori distrutti e creati. Ad essere colpite sono soprattutto, secondo alcuni studi, quelle che oggi classificheremmo come competenze medie e routinarie (come documenta anche Guarascio), mentre sia quelle più qualificate sia meno qualificate sono destinate a crescere. Ne risulta un combinato disposto di upgrading e polarizzazione, ovvero mobilità verso l’alto per alcuni (i pochi) e schiacciamento verso il basso per altri (i molti, coletti blu o bianchi) perché privi di qualifiche o sostituiti dall’irrompere della tecnologia. In Italia, questi fenomeni sono più accentuati che altrove, in particolare al Sud, dove sono più marcati i processi di slittamento verso il basso.
Come questo dualismo possa svilupparsi ce lo prefigura il caso scuola delle piattaforme. In esso, al gradino in basso, troviamo un enorme spostamento di potere, con assenza di contrattazione e rappresentanza, con figure miste tra lavoro autonomo e dipendente (ma tutte con assenza di tutele), scarico dei rischi di impresa sui lavoratori senza adeguate contropartite in termini di diritti contrattuali, sociali e di partecipazione ai benefici che la tecnologia produce, ecc. Tutto ciò è noto. Il problema è come fronteggiarlo.
Non c’è dubbio, come rileva Ciarini, che sia utile un forte allineamento tra politiche della formazione, istruzione e azioni mirate a favorire una mobilità ascensionale e che occorra sostenere, con reddito minimo e formazione mirata all’inserimento lavorativo, la transizione e il reddito di chi, per skill e professionalità, non riesce a agganciare il salto tecnologico in corso. Ma occorre riflettere se, al di là di questa strategia adattiva – che punta ad accompagnare e compensare gli effetti dell’evoluzione della tecnologia senza mettere in discussione una evoluzione giudicata ineludibile e irreversibile -, si possa pensare anche a interventi più radicali che mirino a contrastare all’origine le fratture (Ciarini).
Egli ritiene indispensabile di fronte a questi sviluppi rafforzare i diritti sociali, prevedere un salario minimo, una legislazione di contrasto al precariato e alla disintermediazione, nonché al lavoro povero di contenuti formativi, e pensa che occorra rivendicare la riduzione del tempo di lavoro salvaguardando il salario. Cita anche Ackinson nelle sue indicazioni a favore di una politica pubblica che indirizzi gli sviluppi tecnologici (su cui ritorneremo) e immagini un diverso modo di concepire il lavoro (di mercato e fuori mercato).
Non ultimo, egli ritiene che occorra anche guardare più lontano e mettere a tema il reddito di cittadinanza inteso però non nell’accezione che ha avuto in Parlamento, ma come reddito da giustapporre al lavoro di mercato (non sostituirlo), per consentire più libertà e capacità di contrattazione ai lavoratori. Oggi questo indirizzo è problematico per le risorse che comporta, ma se lo si guarda in un’ottica più ampia – alla luce dei guadagni di produttività che la tecnologia consente e del tempo di lavoro che si libera – si intravede una base per nuovi schemi sociali sostenibili finanziariamente. Il reddito di partecipazione (come è più corretto chiamarlo) costituirà la base di valorizzazione e riconoscimento (non con un salario, ma con apposite tutele sul piano economico e giuridico) delle attività fuori mercato che si indirizzano alla formazione, all’aggiornamento, alla cura, a beneficio degli altri o comunque alla pluralità di avanzamenti individuali e collettivi che impegnano gli individui.
Franzini, nell’ambito di una stringente analisi del carattere variegato della cosiddetta gig economy e del lavoro sulle piattaforme, aggiunge agli indirizzi ipotizzabili la sollecitazione a guardare con favore la formazione di cooperative che gestiscano in proprio le piattaforme. Chi oggi le possiede ha il vantaggio, in casi molti casi, di poter espandere la produzione (di servizi) con costi marginali tendenzialmente nulli e, comunque, senza necessità di capitale fisico addizionale. Le conseguenze sotto il profilo dell’equità e dell’efficienza possono essere affrontate, in generale, con interventi di regolazione simili a quelli che valgono in presenza di monopolio naturale (che si caratterizza, appunto, per costi marginali decrescenti fino quasi all’annullamento) o di beni pubblici. Tuttavia proprio la possibilità di superare i limiti di accesso al capitale consente di immaginare una soluzione imperniata su sistemi di cooperative dei lavoratori, che potrebbero saltare l’intermediazione delle piattaforme proprietarie e dirottare verso i lavoratori quella parte di rendita che oggi è appannaggio di chi le possiede.
Occorre rendersi conto, afferma, che le conseguenze delle tecnologie sono condizionate dall’assetto istituzionale prevalente, a partire dall’importanza che ha l’assegnazione dei diritti di proprietà (assieme ad altre regole di funzionamento dei mercati). Favorire le cooperative dei lavoratori sulle piattaforme equivale a una modifica dei diritti di proprietà e le conseguenze sono, naturalmente, molto rilevanti quanto meno per la riduzione delle disuguaglianze e la protezione dell’occupazione.
In questa ottica, le cooperative possono costituire una risposta alla necessità – posta da Provenzano in sede di presentazione dell’incontro – di una nuova declinazione del concetto di lavoro subordinato – un compito sfidante per i giuristi. I quali, peraltro, – sempre secondo Provenzano -potrebbero contribuire non poco a riscrivere i diritti di proprietà anche in una visione più ampia di quella indicata in precedenza, correggendo soprattutto la loro attuale tendenza a proteggere troppo chi “estrae” valore e troppo poco chi lo “crea”, dai semplici utenti dell’economia digitale ai produttori di dati o ai lavoratori su cui spesso ricade il rischio di impresa e – in molti casi – l’onere di possedere i mezzi di produzione.
Tutto ciò indirizza a governare gli effetti degli sviluppi tecnologici (e le ricadute sulla struttura sociale che si dispiegano sotto la benevolenza di un neoliberismo ancora non superato). Ma anche l’algoritmo in sé va contrattato. Dopotutto “gli algoritmi gestionali sono forme mobilissime che vengono rigenerati e implementati giornalmente”, spesso con il contributo di chi, lavorando sulle piattaforme, apporta miglioramenti (senza contropartite o partecipazione alla cattura del valore), come rilevano Agostini e Mezza nel loro intervento scritto. Quanto più la possibilità di affidare ad algoritmi il governo dei processi investe un arco sempre più esteso di settori (anche tradizionali) e di situazioni di vita, tanto più è necessario attrezzarsi in questa direzione. Questo implica varie cose. Innanzi tutto, un sindacato “che ponga al centro del negoziato la logica e la struttura cognitiva degli algoritmi che gestiscono l’intera filiera operativa” e quindi che sappia sviluppare o utilizzare gli strumenti tecnologici per fare contrattazione (anche quella sugli input utilizzati negli algoritmi, precisa Mancini). Quindi continuano: un sindacato attrezzato in termini di competenze per rispondere ai canoni del nuovo conflitto e impedire che l’algoritmo sia usato come principio di autorità che si erge sui rapporti di produzione. Durante il fordismo il sindacato fu in grado di contrastare l’uso della scienza a fini avversi a quello del lavoro; oggi dovrebbe porsi in grado di fare lo stesso. “Proporsi di governare il cambiamento, sostiene Mancini, significa non accettare una predeterminazione delle direzioni della tecnologia ma contrattarle”.
Il sindacato è di fronte a due nodi sottolineati da Agostini e Mezza (ma non solo il sindacato lo è, perché sotto altro profilo le alternative riguardano tutta l’azione politica della sinistra).
“In primo luogo, per la prima volta nella storia moderna i processi innovativi e in particolare la configurazione del nuovo potere sociale dominante, quale è appunto il pensiero computazionale, non si realizza nell’ambito del perimetro produttivo. La fabbrica, o comunque l’attività lavorativa, non è più la sede né il motore dell’innovazione. Secondo, se questo scenario è confermato le forme del conflitto devono essere completamente ripensate rispetto alla tradizione della contrattazione fra capitale e lavoro, il sindacato dovrà immaginare forme che raccolgano e organizzino i bisogni e le ambizioni delle figure sociali che i poteri dominanti hanno riorganizzato (“i riders come i giornalisti, consumatori come i distributori, i medici come i pazienti”) connettendo quello che l’algoritmo divide”.
Un tema si pone come prioritario ed è relativo all’intensità del lavoro, predeterminata dagli algoritmi, che non può essere accettata come oggettivamente vincolata. E vanno pensate anche forme universali di protezione: dalla salute, alla formazione, al salario minimo per tutte le forme di lavoro. Ma con l’accortezza di non prestare attenzione solo alla fascia bassa del mercato del lavoro (Mancini) perché è in quella alta che si concentrano le capacità di portare avanti il contrasto.
A questi due punti Mancini lega due temi tutt’altro che secondari se teniamo conto di quanto importante sia per la maggioranza delle persone (specie nuove generazioni) l’interconnessione continua in cui sono inseriti. Il primo riguarda l’utilizzo di strumenti che sappiano interfacciarsi con quelli che organizzano i lavoratori; ad esempio attraverso l’elaborazione di controapp, che raccolgano informazioni utili al lavoratore o servano dal suo punto di vista da monitoraggio del lavoro. Ma c’è anche un secondo problema, e riguarda il linguaggio. Se si vuole creare partecipazione bisogna partire dal fatto che la maggioranza delle persone attive si muove su rete e si organizza in strutture collettive secondo connessioni sociali che aderiscono a una logica di circolarità. Non è più percorribile l’approccio top down, ma va concepita una orizzontalità che consenta alle persone che si intende rappresentare di partire da sé stesse in un processo che raccoglie i bisogni dal basso li interpreta e mette in circolo esigenze e visioni del mondo.
Algoritmo e selezione sociale
In tema di algoritmo, va anche sottolineato che la necessità di contrattarlo si presenta non solo quando plasma il processo lavorativo, ma anche quando è alla base dei processi di selezione delle persone. La tematica del lavoro vi rientra quando, ad esempio, l’algoritmo selezioni preventivamente i lavoratori (ma poi può selezionare l’accesso ai servizi sociali, l’assegnazione alle varie scuole, le persone assicurabili dai rischi, ecc.): molte scelte importanti per la vita dei cittadini sono affidate all’automazione e lo saranno sempre più. Come ricordano Mancini nel suo intervento e Resta nella memoria scritta, l’algoritmo non è neutro; può incorporare i valori, i pregiudizi sociali e le convinzioni culturali di chi lo progetta; quindi può essere sistematicamente discriminatorio in una qualche direzione. Esso è basato su serie di dati (che, ad esempio, possono comprendere informazioni su istruzione, quartiere, genitori, ecc.) e su proxi probabilistiche che – come ci dice chi ne ha studiato gli effetti in casi specifici riportati da Resta – producono sistematicamente una distorsione dei risultati a detrimento delle persone che vivono in condizioni di marginalità sociale o comunque provengono da ambienti svantaggiati. Si pone quindi un problema di trasparenza e correttezza, perché le proxi probabilistiche con cui si setacciano i dati sono sempre da provare. E qui è necessario perseguire una disciplina sul piano giuridico che Resta indica nell’applicazione effettiva di due norme già contenute nel Regolamento generale sulla protezione dei dati personali dell’Unione Europea, che stabiliscono: a) il diritto di ogni individuo a conoscere le informazioni significative circa la logica, l’utilizzo e le conseguenze per l’interessato del trattamento informatizzato; b) il diritto dello stesso di non essere sottoposto unicamente a una decisione informatizzata che produca effetti giuridici. Ma poi occorre anche aggiungere il diritto di una persona a non essere profilata senza il suo consenso e quello di poter comprendere come l’automazione abbia determinato una decisione che abbia inciso sulla sua persona.
Tutto ciò, rileva Resta, per quanto meritorio è ancora dentro una logica di tipo individualistico, riferito alla singola persona, mentre la tutela andrebbe spostata sul piano collettivo, in quanto è nella logica dei sistemi informatici di selezione determinare dei veri e propri cluster (per residenza, storia personale, istruzione, ecc. ecc.). Per questo servono strumenti di contrasto affidati alla responsabilità pubblica, alle agenzie indipendenti, alla magistratura, ma soprattutto all’azione degli enti non profit e delle associazioni per i diritti civili e serve (come è previsto in Germania) il diritto alla promozione di class action in presunzione di discriminazioni sistematiche in ambito informatico (oltre che di discriminazioni collettive nella fruizione di diritti sociali).
I nuovi rischi e l’investimento sociale
Le fratture prefigurate da una evoluzione della società plasmata dagli sviluppi della tecnologia riguardano non solo i problemi della disoccupazione, dell’obsolescenza delle competenze e dell’autorità degli algoritmi (e, in fin dei conti, di democrazia e di potere), ma anche inediti rischi e bisogni collettivi che investono il piano sociale generale, dove, malgrado alcune attenuazioni, è ancora il neo liberismo il canone dominante. Nuove fragilità nelle famiglie, nella cura dei figli, nella solitudine che vivono le persone, nel rapporto tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito, nella vulnerabilità delle donne lavoratrici, nella non autosufficienza, e nell’invecchiamento della popolazione, impongono di adeguare il sistema del welfare e della protezione, come ha ricordato Biasco nella sua introduzione e come ha illustrato in dettaglio Saraceno nel suo intervento.
Spesso non si tratta di nuove vulnerabilità, ma di condizioni e rischi che vi sono sempre stati, ma che da individuali sono diventati di massa (Saraceno). Ella si è fermata sui due modi di fronteggiarli, presenti nel dibattito corrente. Il primo è l’approccio dell’”investimento sociale”. Secondo questa visione, si tratta di indirizzarsi verso un welfare attivo che metta tutti in grado di affrontare i rischi e avere le competenze necessarie per farlo. È un indirizzo di welfare che punta all’attivazione più che alla protezione e prevede investimenti su quelle politiche sociali in grado di intervenire meglio ex-ante e non ex-post come era nel welfare fordista. In questo indirizzo, precisa Ciarini, acquistano centralità gli investimenti sui servizi di cura e conciliazione, sulle politiche attive del lavoro (ma non a detrimento di quelle passive), sull’istruzione (sin dai primi anni di vita) e sulla formazione permanente. Ma l’approccio non può riguardare la totalità delle situazioni, perché non si capisce come un malato possa essere attivato (Saraceno).
Il secondo approccio è più promettente anche se non esclude il primo, è detto “del mercato del lavoro transizionale”. Questo approccio pensa ad una prospettiva riferita al corso della vita in cui i cittadini entrano e escono dal mercato del lavoro o prendono dei rischi nelle loro scelte. “Il welfare dovrebbe costruire dei ponti che facilitino le traversate”, afferma Saraceno. Quindi non un welfare legato all’occupazione ma al lavoro complessivamente inteso. Un welfare, cioè, più adeguato ai percorsi accidentati, nei quali spesso si alterna un po’ di lavoro e un po’ di non lavoro a seconda delle scelte e delle situazioni. Quel criterio di welfare implica reti di sostegno al reddito, di servizi e di istituzioni che consentano opportunità lungo tutto il corso della vita. Non è che oggi sia del tutto assente – pensiamo al sostegno al reddito nei congedi di maternità e nelle malattie – ma andrebbe esteso come modello. D’altra parte nello stesso Libro Bianco di Biagi, da cui fu estratta solo una parte, era prevista la necessità di garantire ai lavoratori precari un armadio di risorse abilitanti – culturali o formative – cui potessero accedere indipendentemente dalla condizione lavorativa. Saraceno pensa che – essendo, per i suoi costi, la possibilità di un perseguimento immediato del reddito di cittadinanza realisticamente debole – questa possa esserne una variante modulare in cui pezzi di sostegno al reddito possano essere previsti, senza condizioni, per fasi particolari della vita o durante esiti negativi (e non per tutta la vita).
Ma, attenzione a tener conto, specie in Italia, anche di coloro che non sono in età lavorativa (per i quali è più predisposto l’approccio dell’investimento sociale, orientato alla valorizzazione del capitale umano). Vi sono milioni di minori in condizioni di povertà e se lo svantaggio educativo che ciò determina non entra nell’agenda del welfare con politiche strutturali (non con bandi) il divario si trascinerà (come dimostra la prevalenza di condizioni di bassa istruzione tra giovani che rientrano nei Neet).
Altri approcci possono anche avere qualche merito – come quello che chiede ai privati di farsi soggetti responsabili di produzione di welfare, cioè il welfare comunitario o partecipato dal Terzo Settore e, meno, quello centrato sulle assicurazioni private e quello aziendale – ma il rischio è di aggiungere diseguaglianza a diseguaglianza, come paventano Saraceno e Ciarini, perché si tratta di interventi esposti alla riproduzione dei dualismi, tra lavoratori delle piccole e delle grandi imprese, tra chi è coperto dalla contrattazione e chi non lo è, tra territori ricchi di reti sociali e territori che ne sono privi. Bisogna semmai per Ciarini, porsi l’obiettivo di rafforzare la capacità di intervento delle istituzioni, anche nel sostegno delle reti sociali, laddove la società è più debole e frammentata; “ma, attenzione a quelle interpretazioni neo-comunitarie, ma di stampo liberista, che alle mancanze dello Stato ritengono sempre preferibile l’attivazione del mercato e delle comunità che si prendano cura da sé (tipo il progetto della Big Society inglese), perché di fatto sono legate all’obiettivo di portare alla drastica riduzione del perimetro pubblico, per “addossare” tutte le responsabilità sulle comunità che si auto-organizzano al proprio interno”. E in ogni caso – fa notare Saraceno – va ricordato che tutti gli studi concordano nel rilevare che dove il pubblico è più forte con istituzioni e agenzie intermedie la società è più ricca e attiva.
C’è quindi un confine pubblico-privato da spostare in nome dell’universalismo e dei diritti di cittadinanza legati al territorio, che, in quanto tali, non devono essere delegati alle ingegnerie dei sindaci, ma far parte di una politica nazionale (Viesti). E va poi dato il giusto rilievo alla centralità che ha un efficiente predisposizione di servizi sociali per aumentare la produttività di sistema. Si è perso di vista che il welfare è una infrastruttura di supporto alla crescita ed è uno dei criteri di orientamento per stimolarla (Viesti ne cita cinque; degli altri quattro si vedrà strada facendo). L’investimento per ottenere servizi di qualità, per reingegnerizzare la protezione pubblica in epoca digitale (anche per renderla sostenibile), per la salute, per la protezione dai rischi sociali, per la conciliazione tra lavoro e famiglia formano, infatti, altrettanti capitoli di politiche di sostegno allo sviluppo. (Lo sono anche altri utilizzi di spesa corrente, se ben indirizzati, come la giustizia e il trasporto pubblico locale, ad esempio). Vedere i servizi pubblici come costi da tagliare e concentrare su di essi le spending review, come è avvenuto nei paesi occidentali (e nel nostro), è stato un abbaglio perché l’esito allontana dall’efficienza complessiva (Viesti). In più non consente di governare la creazione di nuova occupazione nei settori dove sempre più si si indirizzerà in futuro (Ciarini).
Ruolo dello Stato nello sviluppo delle forze produttive
Le sfide del futuro non stanno solo nei modi di fronteggiare le fratture citate finora, ma anche nella consapevolezza che qualsiasi protezione si voglia dare al lavoro e ai rischi sociali è più debole senza il rafforzamento produttivo. Se manca, non si creano buoni lavori, né la crescita si può condividere se non c’è. Nell’incontro questo è stato un punto di caduta attorno a cui ha ruotato la discussione. La crescita è anche un fattore cardine della legittimazione politica, che Fioravante lega anche a un orizzonte generazionale, rilevando che in epoca di lavoro negato non si può più pensare a soggetti politici della sinistra che rivendichino solo la difesa del lavoro, perché è la creazione di lavoro a dover essere rivendicata.
Qui il focus è sullo Stato; o meglio sulla necessità di riaffermare la statualità (Provenzano): “non solo nel suo ruolo tradizionale nella progressività della tassazione (la tassazione è un tema trattato da Fanti), nella politica industriale (che vuol dire governo dell’innovazione), e nell’organizzazione della vita sociale, ma anche nel percorrere le nuove frontiere della regolazione degli algoritmi (di cui si è detto) e dei diritti nell’economia della conoscenza”. Tutti temi che hanno anche una declinazione importante sul terreno della democrazia prima ancora che su quello dei processi produttivi. Egli rileva anche che, nel ruolo di guida dell’economia e promotore dello sviluppo delle forze produttive, l’Italia è stato l’unico paese a spogliarsi dello Stato in modo marcato negli ultimi 25 anni, con il contributo attivo della sinistra.
La questione non è, però, quantitativa, o non solo. Non si tratta puramente di rivendicare politiche pubbliche per sostenere la crescita, ma dotarsi di strumenti in grado di modificare un ciclo di sviluppo che giunge al suo termine e promuovere il successivo basato sull’ecologia, i consumi collettivi e i beni pubblici.
Sulla priorità degli investimenti pubblici hanno convenuto tutti gli intervenuti, sottolineando che, con tassi di interesse vicino allo zero e crescita bassa, la moltiplicazione di reddito che essi apportano è superiore a (Roventini, Ciocca, Viesti). Quanto meno dovrebbe essere irrinunciabile l’obbiettivo di mantenere la quota pubblica almeno a livelli che aveva pre-crisi (il 2% del pil contro l’attuale 1,2%), ma non basta, perché non è questione di solo stimolo congiunturale alla domanda o di politiche compensative ma della prospettiva da assumere, che deve riguardare almeno due decenni in avanti (come concordano tutti) ed essere indirizzata verso mandati specifici. Si tratta di sviluppare una serie coordinata di progetti tendenti a missioni ambiziose e mirate al lungo periodo, decise insieme alla società civile (Roventini). Quelle indirizzate a combattere il cambiamento climatico, ad esempio – che sono prioritarie su tutte – devono interessare nuove tecniche di costruzione, la mobilità, l’auto elettrica, la produzione alimentare, l’efficientamento energetico, e tutto ciò che consente zero emissioni e poco altro. Si può andare in dettaglio in missioni legate ai beni culturali, alla logistica integrata oppure al settore ict e robotica (industry 4.0 e oltre) e altre purché ben definite e compatte. Le missioni sono positive se particolarmente guidate dalla mano pubblica nelle ricadute sui settori, nella creazione di nuove industrie e nuovi mercati, negli indirizzi dell’innovazione, nel ruolo della finanza quale fornitrice di capitali pazienti (Roventini). E, aggiunge Surdi, quando fruiscono di una domanda pubblica mirata. E Pennacchi: quando alla promozione dell’innovazione si accoppia un “piano del lavoro”.
Le condizioni abilitanti e collaterali a quest’impegno sugli investimenti richiedono intelligenza nel disegno complessivo di incentivi e interventi diretti. Produrre un’infrastruttura, anche se ben finanziata, non basta, se poi non si curano le piccole opere che consentano di connettere i singoli interventi, generare servizi e creare un sistema di produzione e di supporto creditizio (non si può avere l’alta velocità e treni periferici che vanno a 50 km all’ora su reti che necessiterebbero opere di efficientamento, elettrificazione, impianti di sicurezza, ecc. per consentire una circolazione più rapida e sicura) (Viesti). Il Mezzogiorno è un caso paradigmatico. Non è questione solo di finanziamenti, ma anche di sfruttamento delle nuove tecnologie: “a volte – sostiene – la loro applicazione è più importante dell’opera in quanto tale”
Condizioni abilitanti e collaterali sono anche nelle riforme “fatte bene” che limitino sostanzialmente la flessibilità del mercato del lavoro, rafforzino i sindacati, stabiliscano un salario minimo, facciano crescere i salari almeno quanto la produttività e generino formazione continua (Roventini). Contrariamente alla vulgata, i salari alti migliorano il quadro occupazionale e dell’economia. Non si può non capire che i salari troppo bassi e il lavoro flessibile consentono alle imprese di competere tagliando i costi invece che innovando e le tengono in settori labour intensive che non assorbono competenze (sottolineato anche da Borioni). Oltretutto, deprimono la domanda globale (e l’occupazione) e, in più, sono costosi per il bilancio pubblico, perché poi richiedono incentivi alle imprese e alle assunzioni, col rischio che da quest’ottica di breve periodo le imprese vengano imprigionate e sia poi difficile uscire nel lungo rendendo permanenti i fenomeni negativi.
E’ molto più che condizione abilitante, l’istruzione (la terza delle direzioni di sviluppo analizzate da Viesti) che oggi ha acquisito un’importanza fondamentale. E’ indubbio che una migliore qualità della forza lavoro e una migliore scolarità portino a maggiore produttività di sistema. L’istruzione universitaria, poi, è un vero e proprio motore di sviluppo territoriale. L’aver consentito un’autentica distruzione dell’Università è fra le colpe maggiori della classe dirigente italiana. E, aggiunge, che la stessa insensibilità ha portato in senso più ampio a disinvestire sulle persone depauperando il settore pubblico di professionalità di alto profilo e svalorizzando il senso e il prestigio della missione pubblica. Una rotta invertita è indispensabile e presuppone che oggi si punti all’obbiettivo di riportare una nuova generazione, altamente qualificata, nei ranghi del settore pubblico (Provenzano).
Gli investimenti pubblici che gli intervenuti hanno reclamato sono ovviamente anche quelli immateriali, che vanno in congiunzione con l’impegno per l’Università.
Finché lo sviluppo della conoscenza, ricorda Pennacchi, non è guidata da decisioni collettive ma diretta dalle grandi corporation (e si indirizza, ad esempio, a realizzare l’auto senza guidatore o far fare vacanze nello spazio) è difficile che si rivolga verso progetti utili e verso bisogni insoddisfatti (quali sono quelli della riqualificazione urbana e del tempo libero, o relativi ai beni pubblici, comuni e sociali). La scienza e la tecnica non sono neutre, come ben ci ricordava Adorno e come sappiamo anche dall’utilizzo degli algoritmi. Quindi va orientata da un indirizzo pubblico. Biasco ricorda, richiamando ancora Atkinson, che le leve sono significative: dai finanziamenti alle licenze, alle regolamentazioni, l’acquisto, la formazione, gli standard richiesti, i brevetti, la scelta dei settori. E, inoltre, le imprese private possono essere indotte a prendere decisioni socialmente responsabili da costruzioni che diano potere agli stakholder.
Vi è di più. Generalmente la conoscenza è un bene comune, come fa notare Pagano, in quanto l’uso da parte di qualcuno non implica (almeno non dovrebbe) che non possa essere usata contemporaneamente da altri (in termini tecnici, è un bene non rivale come l’aria e l’acqua). Ha in aggiunta la proprietà di crescere su sé stessa (attraverso la generazione di nuove conoscenze) quanto maggiore è il numero di agenti che la usano. Se per molti secoli è stato così, oggi la conoscenza è largamente privatizzata e spesso il suo uso produttivo è permesso solo a pochi, diventando in tal modo una consistente fonte di valorizzazione privata e di profitto. Questa radicale mutazione del capitalismo moderno è testimoniata dal fatto che per le più grandi 500 imprese (secondo S&P) del mondo la quota di capitale intangibile, in larga parte costituita dai diritti di proprietà intellettuale, è aumentato dal 1982 al 1999 dal 38 per cento allo 84 per cento, rimanendo poi più o meno in questa proporzione. La proprietà privata della conoscenza ha una natura ben diversa dalla proprietà dei beni tangibili, in quanto non replicabile e non deteriorabile con l’uso, a differenza dei primi. Essendo di uso esclusivo (o comunque con accesso negato a tutti gli individui non autorizzati), la proprietà privata coincide con un monopolio di ogni specidica conoscenza. Questo si traduce poi in un circolo virtuoso per la singola impresa che la possiede, perché le consente di controllare la traiettoria tecnologica e svilupparla, e in tal modo acquisire nuovi diritti di proprietà intellettuale e reclutare le competenze necessarie. Per converso, altre imprese sono in circoli viziosi in cui l’assenza di proprietà intellettuale inibisce l’acquisizione di competenze e viceversa l’assenza di competenze rende difficile l’acquisizione di proprietà intellettuale.
Il problema che ci si presenta è di invertire il processo che da un bene comune ha portato al monopolio, riportando il più possibile la conoscenza a dispiegare le sue potenzialità di bene non rivale. Politiche di socializzazione della ricerca possono generare un forte moltiplicatore degli investimenti. Richiedono modalità diverse in ogni singola tipologia, perché la società della conoscenza non ha una forma univoca e le possibili alternative e modalità di intervento possono essere declinate in modi diversi a livelli diversi. Ma siamo ben lontani dall’avere una possibile strategia di mutamento efficace. In generale, se si vogliono più investimenti in ricerca, bisogna capire che è importante rendere disponibili a tutti particolari conoscenze e tecnologie che, se appropriate privatamente, bloccano numerosi investimenti in campi ad esse complementari. Può richiedere espropriazioni (compensate monetariamente) che mentre aprono opportunità per numerose altre imprese, probabilmente inducono il monopolista espropriato (che si trova con più liquidità e concorrenza) ad aumentare il suo livello di investimenti. E’ possibile poi avere forme di condivisione fra imprese e università che assicurino una sua libera circolazione all’interno di determinati network. A livello globale si dovrebbe tendere a regole di accesso al WTO che stabiliscano che ogni paese membro è tenuto obbligatoriamente a investire una quota del suo prodotto nazionale in scienza condivisa da tutti, evitando così forme di concorrenza sleale in cui ogni paese cerchi di usufruire gratuitamente degli investimenti di altri.
Implicito nell’intera impostazione che mira al rafforzamento della struttura produttiva è il tema della grande impresa, posto da da Mucchetti e da Viesti (per il quale è il quarto orizzonte: “la dimensione è più importante dei settori nella produttività del sistema”). La dimensione conta non solo per le economie di scala e di altro tipo, ma anche per la facilitazione dell’ingresso nelle imprese di lavoro ad alta qualità (che, tuttavia, richiede indirizzi ad hoc). Il ruolo dell’impresa pubblica è strategico quanto quello dei capitali pazienti posti a salvaguardia del sistema produttivo (come altrettanto lo è la managerializzazione delle piccole imprese). Mucchetti fa un’impietosa analisi di ciò che è successo nel nostro Paese all’impresa pubblica. E se oggi c’è un ritorno alla Stato imprenditore, questo procede a tentoni e non è accompagnato da strategie né da quell’orizzonte ventennale di cui si è detto all’inizio. Ma ci vuole il capitale necessario perché un salto avvenga. Mucchetti spezza una lancia, cui non tutti concordano, a favore del voto maggiorato per gli azionisti stabili delle società quotate (cioè diritti di voto maggiori di quelli corrispondenti alla percentuale di possesso), in modo da liberare quest’ultime dal problema del controllo e renderle meno aggredibili, col vantaggio di consentire orizzonti di più lungo periodo. Sarebbe un vantaggio anche per lo Stato che potrebbe governare con meno capitale i gruppi pubblici che destina alla missione assegnata.
Un’annotazione sull’argomento. Tutte le direttrici di sviluppo sono importanti e vanno perseguite contestualmente (vedremo sotto quella che riguarda le città), ma vanno applicate con maggiore intensità nel Mezzogiorno, perché solo la crescita del Mezzogiorno può consentire al nostro Paese di superare lo stallo in cui è. Un tema dato per implicito nelle riflessioni dedicate al rafforzamento dell’apparato produttivo, ma che è sempre bene esplicitare.
Il ruolo strategico delle città
I temi trattati li ritroviamo nella loro interezza nel capitolo delle città (o “del territorio urbano” o “della rete urbana”, come precisa Caudo), che non a caso è stato preso come esemplificazione dell’intreccio tra diverse tematiche: quale quella dello sviluppo, delle politiche pubbliche di redistribuzione, dell’organizzazione sociale, di fruizione dei servizi, e di definizione della cultura politica. Inevitabilmente l’attenzione si è concentrata sull’Italia, anche se nella sua vasta analisi della trasformazione della città metropolitana e dei suoi processi di centralizzazione e polarizzazione spaziale, Coppola ha portato esempi internazionali. Egli ha sottolineando come la polarizzazione sia anche tra territori competitivi che vanno oltre l’urbano e territori che non lo sono e che talvolta includono delle città.
Le città sono il pezzo dell’economia che cresce di più e sono una direttrice per la crescita della produttività di sistema (la quinta tra quelle citate da Viesti). Avrebbero dovuto essere, secondo Tocci, l’asso nella manica di una politica di sviluppo in Itala quando, invece, sono state investite da un’orgia normativa che dal centro si è riversata sui territori, priva di prospettiva e visione e indirizzata alla cieca al contenimento di spesa. Di questo, Tocci, ha dato una impietosa e dettagliata analisi. Fa eccezione il programma per le periferie, ma anche in questo caso, aggiunge, si può considerare politica nazionale quella fatta per bandi che ha dato luogo a una serie eterogenea di opere lasciate a sé stesse alla fine del bando e priva di organicità di obbiettivi?
Manca una agenda urbana nazionale, nella quale non spetta alla politica statale di definire se la città debba essere smart, sostenibile (e aggettivi vari), ma spetta ad essa occuparsi delle questioni fondamentali (trasporti, casa, scuola, ad esempio), attraverso grandi piani infrastrutturali che diano un quadro di certezza, all’interno del quale i comuni possano sviluppare i loro piani strategici e aggiungere i connotati specifici che la città vuole assumere.
Tocci, entrando nel merito, rileva come l’Alta Velocità avrebbe dovuto essere l’impalcatura di sostegno a una rete di 100 città e coincidere con una politica territoriale. Il dividendo di quella infrastruttura, liberando rami ferroviari nelle città, avrebbe dovuto portare a una cura cittadina del ferro a favore di una nervatura capace di connettere gli hinterland. Rimanendo incompleta, l’Alta Velocità rischia di accentuare gli squilibri.
La politica della casa è uscita silenziosamente dall’agenda pubblica e la sua cancellazione è stata uno dei fattori di diseguaglianza che ha costretto le giovani coppie ad andare nell’hinterland e sprovvisto il Paese della possibilità di dare un alloggio ai migranti. Ovviamente, occorre partire dal patrimonio esistente (caserme, case troppo grandi per chi rimane solo, ecc.) e riesumare vecchie normative del governo dell’Ulivo, mai applicate, che obbligavano l’edilizia privata a trascinare l’intervento dell’edilizia sociale.
Anche l’intervento sulla scuola dovrebbe rispondere all’obiettivo di una istruzione integrata che consenta un’apertura continua, mattina e sera, per corrispondere sia a una formazione permanente, sia alla necessità di riportare nella scuola i genitori per combattere l’evasione dell’obbligo scolastico e di stimolare nuove occasioni di formazione, di cittadinanza attiva, di comunità.
Ma anche cultura, arte, musica e bellezza – aggiunge Viesti – sono fondamentali a creare valore aggiunto ed è sbagliato considerare la questione come un affare dei sindaci perché è anch’essa una questione nazionale.
Anche il tema della rendita urbana è uscito dall’agenda politica nonostante oggi si leghi con la finanza che estrae valore urbano e lo porta sui mercati internazionali (Provenzano, Tocci e Caudo). E’ sparita la fabbrica dalla città, ma tutta la città è diventata una fabbrica. Qualcuno ne cattura valore, senza che questo si redistribuisca; da qui l’importanza del presidio del territorio (Caudo). In sé non è un problema che il valore immobiliare cresca – ben venga sostiene Tocci -, ma occorre la consapevolezza che esso è prodotto dagli orientamenti e decisioni pubbliche, dal comportamento dei cittadini e anche dall’immaginario di una città. E quindi non dovrebbe fluire a proprietari che non hanno alcun merito, ma ritornare, almeno in parte, alla città ed essere destinato a investimenti, in un circuito virtuoso. Grimaldi ne farebbe una frontiera della sinistra. Come è possibile – si chiede Tocci, ma anche in forma diversa Caudo – che il capitale fisico delle città sia aumentato di alcuni multipli in un quadro di investimenti sul territorio diminuiti e di Comuni impoveriti? Quanto si potrebbe investire, con strumenti adeguati di cattura del valore, per governare l’uscita dall’auto in proprietà e trasformare l’intera città in una piattaforma dell’innovazione politica ed economico?
La ricucitura della società urbana
La città è anche il luogo della socialità, di reinvenzione dei luoghi e di spazi sottoutilizzati che spesso vengono intercettati da un desiderio d’uso e da un immaginario sociale che costruisce nuove forme di cittadinanza (Caudo). Sono forme che tendono a ricucire quella mercificazione capitalistiche che partisce la città dei ricchi (che hanno accesso alla ricchezza che produce il contesto urbano) da quella di chi ne è escluso.
Le culture giovanili sono molto più avanti del mainstream riformista nelle grandi sfide urbane e nello sperimentare nuove idee di socialità, nel senso che gli attivisti urbani stanno trasformando le città dal basso con un movimento silenzioso che non appare nell’immaginario collettivo (Tocci). Con i loro Fab-Lab con la Street Art che riporta il colore nelle periferie, con nuove forme di imprese sociali volte a salvaguardia e valorizzazione del territorio o a un impegno solidaristico e tanto altro – che spesso fa anche da volano a un enpowernement di comunità da parte di amministrazioni locali e fondazioni private (Coppola) – stanno preparando dal basso quelle che saranno le politiche urbane dei prossimi anni, con al centro l’aspetto relazionale (Tocci). E sta nascendo una generazione di ricercatori urbani, attratti dal tema della città, che porta valore cognitivo (cos’è oggi? qual è il confine tra urbano e non urbano? come il turismo disloca luoghi e logiche? ecc.) e si salda con l’opera degli attivisti.
Purtroppo non hanno una qualche infrastruttura politica che li tenga insieme, come quelle che negli anni del dopoguerra consentiva agli intellettuali, impegnati nel rinnovamento in vari campi del sapere e della cultura, il contatto diretto col movimento popolare. Rimangono botton-botton nel senso che rimangono vincolate alla loro esperienza, senza interagire con la politica o fare massa critica, come ricorda Cogliati Dezza, che porta una densa introspezione di quel mondo. Si sviluppano tante lotte che richiederebbero di essere organizzate politicamente (Grimaldi) e che potrebbero chiedere rappresentanza alla politica (ma potrebbero anche farne a meno) (Diletti). Coppola che pure ne ha portato testimonianza, ricorda come la prospettiva di partenza di quel mondo antropologico sia totalmente alternativa al modo tradizionale della riflessione politica. Non si tratta di trovare le cose di sinistra da dire ad esso (e all’elettorato) ma di costruire spazi nei quali capire cos’è la sinistra.
La cultura politica
E qui viene immancabilmente il tema della cultura politica cui l’incontro ha sentito la voglia di sostare. Già nel suo intervento di saluto Bray aveva affermato che una grande prospettiva di cambiamento debba muovere dalla capacità di avere una visione e dalla forza di alcune idee fondamentali, nella consapevolezza di non aver capito le trasformazioni profonde che stavano avvenendo in questi decenni e di non essere stati capaci di dare un futuro alla tradizione riformista. Cultura, conoscenza e dialogo continuo con chi opera nei territori nella difesa dei beni comuni sono gli strumenti di cui armarsi. Ma tutto l’incontro si è svolto nella convinzione comune che, senza un armamentario culturale che sia percorso da elaborazione profonda, alla sinistra rimarrà difficile trovare le coordinate adeguate per affrontare le trasformazioni che ci riserva il futuro sia sul piano sociale che della macropolitiche.
Sarà anche difficile ricomporre quella frattura generazionale nella cultura politica che è seguita al crollo intellettuale degli ultimi decenni, il cui risultato ha costituito una perdita in entrambe le direzioni, depauperando i canali per la memoria storica, la trasmissione e l’acquisizione di problematiche e di categorie analitiche da un lato e la verifica della loro idoneità a interpretare le trasformazioni dell’oggi, nonché la condivisione reciproca di soggettività e di quanto domandato e offerto alla politica dall’altro (Biasco).
Quanto questo connubio sia utile e indispensabile l’ha dimostrato l’integrazione di riflessioni tratte dal vissuto generazionale con tematiche fondamentali. La politica si impara, e si impara se ci sono strutture, modi e occasioni di impararla, sostiene Bottos. “E soprattutto, si impara più facilmente se c’è un clima socio-culturale e un’egemonia favorevole ad un ragionamento politico. Questo clima è quanto di più lontano sia dalla realtà attuale”. Non aver saputo cercare strumenti e forme per ricostruire l’intelligenza collettiva in grado di mettere a fuoco le priorità è una della carenze della sinistra.
In un convegno come quello che si è tenuto non era certo questione di fissare le coordinate della sinistra perché queste passano per tutti i contenuti dell’incontro, ma di fissare alcune annotazioni pertinenti alla saldatura generazionale. Pasquino ha teso a sottolineare che l’ambizione a ricostruire una cultura politica è ambizione di costruire quella del Paese, non di un partito o di uno schieramento. Una cultura, cioè, che coltivi una visione dell’interesse generale. E ha poi messo in rilievo possibili distorsioni che nuocciono alla cultura della sinistra: che nel suo afflato di ricomposizione e inclusione prenda (in ciascuna componente) il pluralismo delle anime e delle sensibilità al suo interno come alibi per non mettersi in gioco, perché un conto è il pluralismo inteso come attenzione e rispetto di altre anime e visioni, un altro è per ognuna di esse entrare in competizione con quelle concorrenti, sfidandole e valutandole sulle loro direttrici e realizzazioni. Il pluralismo è competitivo. Anche la stella polare dell’eguaglianza, intesa come eguaglianza di opportunità, rischia di essere vista come qualcosa da predisporre una volta per tutte, mentre va seguita e perseguita passo passo e ricreata ad ogni passaggio. Ma, raggiunta una soglia accettabile di opportunità per tutti, bisogna riconoscere a ciascuno la dignità delle scelte personali secondo i sogni, i desideri e le inclinazioni, perché la sinistra non è una forza livellatrice (da qui la saldatura con quei temi sollevati da Ciarini e Fioravante relativi alla riduzione del tempo di lavoro e al recupero di un pezzo di padronanza di vita). E poi: la necessità di distinzione tra diritti e rivendicazioni e quella di concepire anche i doveri, perché una società si costruisce anche sui doveri verso gli altri, verso le istituzioni e verso la stessa visione che ciascuno ha della società. Nella ricostruzione storica, Pasquino ha rilevato che la fusione avvenuta nel Pd tra culture politiche (classificate in modo rassicurante come il meglio del riformismo) era debole in partenza perché escludeva quella socialista, l’unica che era stata significativamente al governo e aveva prodotto conseguenze importanti. Esistevano punti di orientamento cui guardare da Dworkin (per i diritti presi sul serio) a Rawls (per la giustizia sociale) a Sennet (per le trasformazioni della società), ma sono stati ignorati.
Non sono solo le coordinate fondamentali a contare nelle ricostruzione di un orientamento politico (su cui ovviamente non vi è discordanza), ma conta anche comprendere cos’è la politica oggi e come è vissuta dalle nuove generazioni.
In continuità con quanto già discusso in tema di città, Fioravante ha posto l’attenzione sul fatto che oggi le persone si attivano su base individuale. Non c’è più la grande organizzazione che mobilitava il proprio popolo, e le esperienze di successo ci indicano metodi differenti da quelli che conoscevamo. Il modo in cui la protesta politica si è espressa dalla grande crisi in poi ci indica che la mobilitazione viene oggi prima dell’organizzazione. Questo non significa che dobbiamo arrendersi ai populismi o alla mancanza dei corpi intermedi e dei soggetti politici organizzati. Anche in una società individualizzata esistono modi per costruire dei collettivi purché si sia ben consci che la leva per ripoliticizzare le nuove generazioni è nel coinvolgimento pratico giorno per giorno. Pensiamo solo a quanta mobilitazione avviene in materia ambientale e quante vertenze ciò susciti sul territorio, come già abbiamo vista in tema di città. Ma sono destinate a rimanere disperse e locali, senza mai politicizzarsi se non organizzate e politicizzate. Né si può più pensare di coltivare personale politico che non abbia nessun legame con il vissuto delle persone che deve rappresentare o pensare che il cambiamento possa venire da chi non ha interesse immediato e urgente a cambiare E, aggiunge, “non è certo proponendosi in maniera identitaria che la sinistra può tentare un recupero nell’epoca di internet”.
Il fatto di vivere in un epoca così connotata propone in sé un terreno di battaglia per il consenso politico, quello della sfera dei social network, come ha sostenuto Carboni. Concordando sull’istanza posta da Bottos – circa la necessità di una riflessione su una semplificazione intelligente delle idee-forza che possa diffondere le intuizioni di un ragionamento critico sulla società – Carboni rileva che l’agenda politica si costruisce sui social. Vero che una buona semplificazione ha alle spalle moltissimo approfondimento della complessità (Bottos), ma il modo di veicolarla è importante (Carboni). Quello che abbiamo imparato in questi anni dalla destra vittoriosa è la capacità di aggregare in maniera autonoma delle nicchie iper specializzate, iper appassionate e combattive su tematiche specifiche e modi di pensare che hanno egemonizzato in modo invisibile pezzi di dibattito pubblico. E hanno individuato target di figure sociali dettagliatamente selezionati per possibilità di ricezione del messaggio. Non è la destra alternativa che ha vinto grazie a Trump, ma è vero piuttosto il viceversa in quanto la vittoria di Trump è il prodotto di un movimento culturale che si era costituito da 10 anni e passa. Quello che si chiede a un nuovo movimento di sinistra è di non ignorare questa strada, che non è quella di indirizzare le masse con delle organizzazioni strutturate (almeno, no su questo piano), ma di gestire le avanguardie informatiche e coltivare quelle nicchie capaci di costruire battaglie, dirigendole verso un brodo di cultura in cui forgiare una futura egemonia culturale .Non si va lontano con le pagine web ufficiali o le società di comunicazione ma occorre cercare di esplorare le periferie di internet. Esistono battaglie che si possono organizzare e che vedono già delle nicchie autostrutturate che aspettano solo di avere un inquadramento e un orizzonte complessivo da parte degli intellettuali del movimento politico. Bisogna metterle insieme e saperle gestire.
Conclusioni
E’ ovvio che non può esservi un conclusione in un incontro di riflessione, ma se c’è va tratta dall’inquadramento che Provenzano ha fatto del convegno nella sua introduzione, dando dall’inizio il segno sotto cui si è svolto: “occorre puntare a ripoliticizzare il discorso pubblico”, perché è su questo terreno che la sinistra ha perso. La sua sconfitta – richiamando Sandel – non è stata solo il neo-liberismo, ma aver accettato, in nome di un liberalismo procedurale, un discorso neutro e indifferente ai contenuti di una vita e di una società giusta.
L’incontro va inquadrato anche in una seconda chiave: nell’affermazione, sempre di Provenzano, che “se la sinistra non è più in grado di cambiare il mondo è anche perché non è in grado di interpretarlo, avendo perso la capacità critica. Per affrontare la complessità, per essere riconoscibili e capiti, per parlare una ‘lingua viva’, occorre studiare di più, non di meno perché, come sosteneva Gobetti ‘educando noi stessi educhiamo anche gli altri’. Ma non basta, perché dobbiamo capire come gli altri si stanno educando da soli, incontrare gli altri, farsi ‘altri’”. Se pur nel Convegno abbiamo affrontato le fratture soprattutto nella loro dimensione socio-economica – guardando agli strumenti e alla cultura per ripensare il capitalismo e democratizzare l’economia – “siamo ben consci che il socialismo non tornerà d’attualità se non si emancipa dalla dimensione strettamente economica in cui è nato se, come sostiene Honnet, non afferma il suo nucleo di principi anche nel campo delle relazioni umane e dei rapporti politici”. Ma questo è il tema di un’altra occasione
(sintesi redatta da Salvatore Biasco)