Emanuele Macaluso in suo agile ma denso e molto documentato volumetto affronta il tema della “via italiana al socialismo” quale punto alto dell’elaborazione togliattiana e dell’autonomia teorica dei comunisti italiani.
Nel corso di questo suo lavoro emerge come mai in altre ricostruzioni storico – politiche elaborate da dirigenti del PCI la vicenda della radiazione del gruppo del “Manifesto” che Macaluso considera, ancora adesso a quarantaquattro anni di distanza (il CC conclusivo si svolse il 24 – 25 novembre 1969) un errore: inoltre nello stesso lavoro è concessa un’ampia citazione del convegno organizzato dal PdUP nel 1975, appunto sulla figura dello stesso Togliatti.
E’ il caso di rimarcare questa presenza all’interno del libro di Macaluso in un momento in cui la riflessione intorno a ciò che è stata la “sinistra comunista” in Italia sta ritrovando nuova linfa, grazie anche all’uscita della raccolta di un’antologia di scritti di Lucio Magri “Alla ricerca di un nuovo comunismo” che fa seguito, in pratica, al testamento spirituale scritto qualche anno fa dal segretario del PdUP: il fondamentale “Sarto di Ulm”.
Vale la pena quindi riprendere il filo di quella storia di tanti anni fa per precisare e analizzare ancora le ragioni della rottura tra il PCI e il Manifesto: un’operazione che, come le altre fin qui citate, non può essere semplicemente considerata una conservazione (e magari arricchimento) della memoria, bensì uno stimolo a una costatazione di fatto relativa all’assenza e alla necessità di costruzione di un soggetto politico di sinistra comunista in Italia, offrendo anche un modello d’analisi che pure potrebbe ancora essere utilizzato oggi.
Comunque andando per ordine: nel novembre del 1969, oltre quarant’anni fa, il PCI radiava il gruppo del “Manifesto”.
Nella storia del “Manifesto” stanno dubbi, inquietudini, bisogno di fare i conti con un passato difficile, richiamando il senso complessivo di una militanza comunista su cui ritornare, nella valutazione essenziale, al fine di stabilire, come già si accennava poc’anzi proprio un concreto punto di confronto, nella discussione in corso.
Il punto di genesi può essere individuato nel dibattito che ebbe luogo, appunto, nel partito comunista degli anni’60, e che può essere riassunto in tre fasi :
1) La prima, dall’estate del 1960 alla morte di Togliatti, riguardò la rimessa in discussione del tema della trasformazione della società italiana. I fatti del luglio’60, con la cacciata in piazza del governo Tambroni e la discesa in campo die ragazzi con “le magliette a strisce” (ultimo anelito della resistenza o primo vagito del ’68 ?), rappresentarono un momento di grande impatto sull’intera vicenda storica del nostro paese : vi si espressero articolazioni molto vaste della società civile, risollevando la tematica di un nuovo blocco sociale di cambiamento ;
2) la seconda, e bruciante, fase si misurò tra il ’64 e il ’67, quando la morte di Togliatti aprì il problema della successione nel partito comunista, ed il problema di linea si collegò immediatamente al problema della formazione del gruppo dirigente ;
3) la terza fase percorse il periodo tra il ’68 ed il ’70 ; fino al punto di rottura organizzativa con il PCI. Il PCI , a differenza del PCF, si lasciò invadere dalle assemblee degli studenti, e lo stesso Longo, prima delle elezioni del 19 Maggio 1968, andò addirittura ad un incontro con gli studenti del movimento romano, che venne pubblicato su “Rinascita”.
Il partito comunista sembrava essere tornato di nuovo un veicolo possibile, un punto di riferimento, in una fase nella quale si riteneva potesse riaprirsi un’accelerata guerra di posizione.
L’illusione durò fino al mese di Agosto del ’68, quando le scelte del gruppo dirigente del PCI mutarono di segno, in relazione ad una bomba che stava esplodendo, e che ridusse drasticamente i margini di gestione del movimento italiano : la crisi cecoslovacca.
Il PCI visse l’invasione come una tragedia, e non riuscì ad organizzare altro che una tenuta.
Si aprì la fase preparatoria del XII congresso e proprio la scelta di attestare il documento di tesi su di una linea difensiva, sia al riguardo delle tematiche internazionali che rispetto al piano delle dinamiche politiche interne, fece scattare in alcuni membri del Comitato Centrale (Natoli, Pintor, Rossanda) una decisione davvero nuova : non votare il documento della Direzione.
Sarebbe troppo lungo descrivere i diversi aspetti di quella fase congressuale, sia alla periferia sia al centro del partito, e risulta preferibile puntare l’attenzione sull’aspetto più specificatamente politico della vicenda.
Che cosa venne portato, dunque, all’interno di quel congresso dal gruppo del “Manifesto” ?
Essenzialmente tre cose :
a) un’opposizione netta alla fedeltà all’URSS che il PCI comunque riproponeva, sia pure con qualche riserva ;
b) l’ipotesi , al riguardo della scala interna di una crescita del conflitto sociale. A quel momento stava a aprendosi quello che poi verrà denominato “autunno caldo” : una fase di forti lotte operaie, che si scontrarono fortemente con la provocazione di destra (inutile ricordare che il 12 Dicembre 1969 si svolse l’attentato di Piazza Fontana, a Milano) e l’atteggiamento di lotta aperta, mantenuta dalla maggioranza del movimento degli studenti, nei riguardi del sindacato. Il gruppo del “manifesto” avvertì allora, con acutezza e sensibilità del tutto originali, il senso drammatico della necessità di una saldatura da effettuare presto, fra modi d’essere, cultura e contenuti della parte storica del movimento operaio e gli elementi di novità , di contestazione, di dialettica politica usciti dal ’68 ;
c) la certezza che occorresse rinnovare il partito non solo come linea ma come modo d’essere, e questo attraverso l’estendersi di una democrazia interna, mettendo in discussione radicalmente il “centralismo democratico”.
Su questi punti si verificò lo scontro tra il Partito Comunista, ed il gruppo del “manifesto” che venne radiato nel Novembre ’69 : per i promotori di quel gruppo si trattò di una sconfitta, perché la divisione non era stata scelta,.
Venne così cancellata la possibilità di una discussione politica che, riletta a distanza di tanti anni, poteva avere un’importanza davvero non secondaria, come del resto rileva lo stesso Macaluso oggi.
Alla vicenda del “Manifesto” seguì poi quella della “nuova sinistra” di derivazione sessantottina, e quella dell’incrocio, con coloro che rifiutarono di confluire dallo PSIUP nel PCI. Originò così quel PdUP, una formazione politica che svolse un ruolo ambizioso, nonostante la scarsità di risorse a disposizione, la rilettura critica della cui storia può essere utile a patto, però, che la si utilizzi in funzione dell’analisi di quel vuoto esistente nel quadro politico italiano che occorre insistere sia affrontato: l’assenza di un soggetto politico rappresentativo della storia, dell’identità, di una possibile realtà della sinistra comunista in Italia.
Franco Astengo