Se volessi immaginare la nostra comunità come un grande corpo umano, e a questo volessi conferire tutte le funzioni proprie di quel corpo, oggi, con dolore, mi sentirei di dire che con la scomparsa di Umberto Seveso, la comunità ha perso l’organo della “visione”; ha perso gli occhi, o meglio, lo sguardo: la facoltà rivelatrice di bellezza e di poesia.
Lo sguardo dell’artista, sui luoghi, il paesaggio, le figure, come fosse luce, produce l’effetto di rischiarare l’essenza intima delle cose, per rivelarla a sé e a chi quello sguardo non lo possiede.
Questo era Umberto Seveso.
Con l’inesausta curiosità di conoscere e la sua febbrile sensibilità, egli ha indagato l’inconscio, infranto la superficie piana dell’evidenza, per farne scaturire “visioni fantastiche”, in libera emersione da una memoria vasta e perennemente in bilico tra la realtà e il sogno.
Ha raccontato di un mondo misterioso e inesprimibile, e da “visionario” fecondo quale era, ha trovato nella rappresentazione per immagini le sue “risposte poetiche”.
Cos’altro sono quei draghi e/o figure animalesche, o maschere antropomorfe che occupano, minacciose, lo spazio pittorico, se non l’esorcismo di inespresse angosce esistenziali? O sono forse la famosa “ombra” junghiana che abita il nostro inconscio?
Con la sua perdita non più danzeranno funamboli e giocolieri nei cortili innevati di una Sesto povera e laboriosa. Né circensi e suonatori di strada allieteranno ancora i bambini infreddoliti dei cortili operai; e neppure vedremo l’espressione mesta e profonda di donne vinte dalle fatiche di madri e di mogli, con bambini in grembo e a grappolo, davanti alle ginocchia.
Mancheranno -a me tantissimo- i suoi invernali cieli lombardi, freddi come pochi altri, al tramonto, oltre i muri bruni di pioggia della “Torretta” o della Chiesa di Santo Stefano.
Mi mancherà il suo: “dam’ ‘atrà” come richiesta d’attenzione prima di iniziarmi un racconto. E ne aveva per tutti e sempre ispirati nella loro verità semplice.
Sul “palcoscenico” della nostra città, Seveso era attore ma anche drammaturgo, personaggio e, nello stesso tempo, interprete della sestesità soprattutto degli ultimi e degli umili, ai quali soltanto, ha dedicato tutto il suo amore e la sua azione creativa.
Nessuna retorica fin qui: Umberto era molto di più del poco qui detto.
Per questo, oggi, il vuoto è grande, anche se restano le sue opere. Ma perché la morte non sia solo un’assurda perdita e assuma un “senso”, bisognerebbe augurarsi che la nostra percezione del dolore fosse almeno pari alla ricchezza del patrimonio umano, di conoscenza, spiritualità e bellezza di chi ci lascia. Questa sarebbe la sola condizione perché il segreto patrimonio acquisito, ereditato dal contatto diretto, costituisse un piccolo mattone per costruire futuro.