Di Umberto Billo.
Ho trovato oggi sull’Unità questa presentazione di un libro sui campi di tortura e di morte della Cambogia, organizzati e gestiti dai dirigenti del Partito Comunista Cambogiano.
Noi in Europa ed in Italia non abbiamo riflettuto abbastanza su quello che è successo da quelle parti, siamo rimasti per troppo tempo fermi all’idea che l’uccisione di massa fosse basata su ideologie che dividevano gli esseri umani in “superiori” ed “inferiori”, come in Europa (Germania) ed in Africa (Ruanda), ma in Cambogia è successo che partendo da un’idea di uguaglianza ed applicandola in modo feroce un gruppo dirigente educato in Francia, proprio nel paese che ci ha aperto per la prima volta il mondo della libertà e dell’uguaglianza, ha per la prima volta massacrato il suo popolo, non solo gli intellettuali, i proprietari di terre, ma gli stessi contadini ed operai che non accettavano di essere deportati nella giungla per creare un mondo nuovo, puro e lontano dai centri abitati visti come luogo di corruzione. Era naturalmente del tutto casuale che la giungla non producesse abbastanza riso, per cui quelli che non venivano uccisi a bastonate morivano poi di fame.
E tutta questa follia è stata perpetrata per tre-quattro anni, in nome del comunismo duro e puro e sotto le bandiere con la falce ed il martello.
Lungi da me confondere un simbolo, che in altre parti del mondo ha rappresentato invece la lotta per la libertà con questi massacri, ma vorrei ricordare che ad oggi anche in un altro paese questi antichi simboli sono usati per opprimere un intero popolo (vedi il Nord Korea), e grazie ai disastri realizzati nei paesi dell’est Europa, disastri preconizzati per tempo da Rosa Luxemburg (vi dice niente questo nome?) le parole socialismo e comunismo sono diventate impronunciabili, e questo per chi vuol continuare a fare politica deve essere preso in considerazione.
In altre parole è più importante lavorare per l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, cioè concentrarci sulle cose o continuare a litigare sulla “falce e martello” e sulle paure che questo simbolo suscita? Cioè salvare il bambino (le nostre idee) e gettare via solo l’acqua sporca (i vecchi e datati simboli) oppure gettare via entrambi?
Sui registri, accanto ai nomi dei detenuti nel centro di tortura S21 di Phnom Penh, il capo della sicurezza del regime dei Khmer rossi annotava “distruggere”, “annientare”. Estorcere confessioni, con scariche elettriche e vivisezione, ma prima, sempre fotografare, nella folle meticolosità della macchina della morte. Ti ammazzavano perché avevi le dita troppo fini – da borghese -, perché portavi gli occhiali, perché sapevi il francese. O perché rubavi chicchi di riso e “sabotavi la lotta”. Presto furono tutti “impuri” i nemici della rivoluzione, per gli ideologici dello sterminio di massa che prese il volto del regime dei Khmer rossi. In meno di quattro anni dal 1975-1979, un quarto della popolazione cambogiana viene sterminata, il paese intero rimodellato in un immenso campo di lavoro, un’intera società resa dottrina. È al cuore di quel crimine di massa ancora poco conosciuto in Italia, – che non è particolarità geografica, bensì, ha tratti comuni universali con gli altri genocidi del XX secolo – che si addentra L’eliminazione di Rithy Panh (Feltrinelli, 2014). Scritto assieme a Christophe Bataille, è il primo straordinario libro del pluripremiato regista, vincitore con The missing Picture del premio “Un certain regard” a Cannes 2013.
Nato a Phnom Penh nel 1965, sopravvissuto ed emigrato in Francia, Panh non ha poi smesso di documentare, svelare, raccogliere archivi, fare uscire dall’oblio l’innominabile. Il libro intercala i ricordi del terrore di massa di lui adolescente, con l’estenuante intervista a Duch, il capo della sicurezza del regime dei Khmer rossi, il boia del centro di tortura S21 e dell’ex campo M13 campo di sterminio in mezzo alla jungla, da dove nessuno è sopravvissuto, insegnante delle torture, e responsabile di migliaia di morti: una specie di Eichmann khmer. Di fronte, il documentarista sopravvissuto che usa la cinepresa per porsi delle domande (che echeggiano in sottofondo quelle della Harendt), per capire, spiegare, ricordare che cos’è il crimine contro l’umanità.
Prima delle fosse comuni, sono le parole a cambiare significato, le vecchie a scomparire mentre ne appaiono delle nuove: “i guardiani dell’azione”, una misteriosa “Angkar” – l’Organizzazione onnipotente che presto ridurrà tutti al controllo totale. In una nuova classificazione, che non è mai sinonima di orizzonte di progresso ma solo l’inizio dell’annientamento, si distingue il “popolo vecchio” dal “popolo nuovo” da rieducare. I sentimenti, la poesia e la musica, vietati, il taglio dei cappelli, uguale per tutti; scuole, pagode, mestieri, classe sociali, salute, educazione e scienza: aboliti. La storia e il presente riscritti, a colpi di deliranti obiettivi di produzione, di carestie di massa, di deportazioni, purghe, massacri. L’eliminazione dei “nemici” – “non uomini”. Anzi, la loro cancellazione, perché quel regime usava la parola “kamtech” che vuole dire distruggere poi cancellare ogni traccia, erroneamente tradotto dal tardivo e deludente processo ad alcuni leader patrocinato dall’Onu, schiacciare mentre significa fare sparire. «Qual è un regime che prevede un’assenza di uomini piuttosto che uomini imperfetti?» si chiede Panh. La violenza lucida, astratta, voleva «realizzare l’irrealtà». Idolatri di una purificazione che doveva arrivare dal marxismo, una manciata di intellettuali che avevano studiato a Parigi, si erano nutriti al Discorso sul metodo e alla Rivoluzione francese. Panh non risparmia la ragione illuminista alla radice della concezione di quei crimini e critica anche il fatalismo contemporaneo secondo il quale saremmo tutti potenziali carnefici. Bensì questo è un progetto, lucido.
L’eliminazione racconta le estenuanti ore di faccia a faccia tra vittime e carnefice e lancia interrogazioni universali: come si può arrivare là? Lo sterminio però non è suicidio o auto genocidio di una nazione, bensì preciso progetto pianificato: «Sono azioni disumane compiute da esseri umani. Su altri esseri umani. Ma senza alcuna umanità».
Reietti, rifiuti, “eravamo cose”, si ricorda l’allora ragazzo Rithy, rinominato compagno pelato, perché un nome non lo dovevi più avere, solo annullarti nell’Organizzazione. La valenza straordinaria di questo racconto è di aver intercalato, tra i momenti del processo, i ricordi vivi di uno che ha vissuto l’incubo sulla propria pelle. È questo andirivieni tra verità storica e flash di memoria autobiografica che dà a questo racconto il suo valore unico. Senti i campi di rieducazione, la sopravvivenza nelle risaie, le sessioni di autocritica, la fame, le marce forzate e la disumanizzazione: ricordi vivi per dare corpo all’allucinante incubo. Pagine necessarie, universali. Piccolo appunto: la Kampuchea democratica aveva un seggio all’Onu, mentre si compivano quei crimini di massa.
Articolo pubblicato sull’edizione nazionale dell’Unità del 22 maggio 2014, sezione Culture, p. 18