di Mauro Caron
Mi è capitato spesso di recente di vedere film americani che si svolgono nell’ambiente del proletariato o del sottoproletariato, tra gente comune alle prese con problemi concreti e identificabili: un segnale di positiva vitalità di un cinema che non si riduce al cinema superomistico, degli effetti speciali (peraltro tutt’altro che assenti nel caso in questione, come si vedrà) o delle infinite saghe di cassetta. Si tratta di film dove spesso l’elemento “famiglia” (con la sua assenza o presenza) ha un’importanza decisiva: si vedano l’odissea dell’orfano Charley Thompson, della lotta con se stessa, con la madre tirannica, con il marito balordo (a questo punto le avversarie sportive sono secondarie) di Tonya, la madre sbandata di Un sogno chiamato Florida o la figlia bizzosa che si fa chiamare Lady Bird o ancora le madri e i padri che fanno i conti con la violenza del mondo e della società ad Ebbing, Missouri.
In Stronger, come già in Tonya, la dimensione privata e familiare del protagonista viene messa in rapporto con una dimensione pubblica problematica. Jeff Bauman, infatti, è una delle vittime dell’attentato alla maratona di Boston del 2013 – dove si era recato per tifare per l’ex-fidanzata Erin, sperando di riuscire a riallacciare i rapporti con lei -, che causò la morte di tre persone e il ferimento di moltissime altre. Coinvolto nell’esplosione di uno dei due ordigno piazzati in mezzo alla folla da due terroristi di origine cecena, Jeff perde entrambe le gambe. Un trauma terribile, che lo porrà davanti a un dolorosissimo percorso di elaborazione della perdita e di ridefinizione di se stesso e del proprio rapporto con gli altri…