Le poesie inedite di Pietro Ingrao

A una manifestazione del PCI nel 1992

Sono conservate in una cartella verde quarantaquattro poesie composte da Pietro Ingrao tra il 2001 e il 2008. Un mannello di fogli dattiloscritti con le correzioni a mano dell’autore. Cancellature, sostituzioni, aggiunte. Gli interventi manoscritti non furono registrati in una redazione finale, alla quale Ingrao abbia posto il suo «visto si stampi». Su una etichetta incollata alla cartella verde sta scritto, in inchiostro rosso, Poesie e sotto, a lato, di pugno di Ingrao, si legge «dubbie (e da rivedere)». Che io sappia il testo poetico più antico che ci resta di Ingrao risale al 1933. Quel componimento, Coro per la nascita d’una città, ottenne l’anno successivo al giovane poeta diciannovenne un ambito riconoscimento. Ingrao risultò infatti terzo, dopo Leonardo Sinisgalli e Attilio Bertolucci, stante il giudizio espresso, ai primi Littoriali della Cultura, da Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi e Riccardo Bacchelli. E Ingrao, che affettava di non tener in gran conto quel testo precoce, rammentava con una punta di compiacimento come, di quel suo Coro, Eugenio Montale avesse apprezzato i versi finali: «Simile il mandorlo/a marzo è scorza aspra/e fiore d’argento». Settanta e più anni separano questa metrica dalle inedite ritrovate. Separano o congiungono? Congiungono, direi. Ingrao ha ragionato a lungo e con costanza sui linguaggi delle avanguardie artistiche del Novecento e segnatamente sul cinema e sulla espressione poetica.

Nel corso degli ultimi tre decenni della sua vita centenaria poi, ha pubblicato tre raccolte di poesia: Il dubbio dei vincitori, nel 1986; L’alta febbre del fare, nel 1994; Variazioni serali, nel 2000, accolte dalla critica con singolare attenzione. Il dubbio di vincitori suscitò un vasto e appassionato interesse tra gli iscritti al Pci.

Un dirigente politico di riconosciuto prestigio invitava a una riflessione sul comunismo elaborata nelle forme del linguaggio poetico. Alcuni testi, del resto, si imponevano perentori per gli espliciti giudizi che recavano: «L’indicibile dei vinti./Il dubbio dei vincitori». Si dice dei vincitori del fascismo e del nazismo nel 1945.

«Secondo me, ha chiosato una volta Ingrao, è interessante l’ordine dei due versi. Assumo prima l’indicibile, quindi misuro la vittoria e derivo il dubbio da una constatazione sul portato della vittoria che non è in grado di avocare, far proprio l’elemento vitale recato dai perdenti». E ancora: «Pensammo una torre./Scavammo nella polvere».

Ha commentato Ingrao: «È una poesia sul significato del comunismo. È la rappresentazione di una grande ambizione e di un grande fallimento». E, quasi una dichiarazione di poetica, aggiunge: «Fissare in due versi un pezzo di storia». Questo proposito è mantenuto anche nelle inedite conservate. Con accenti di intensa drammaticità, alcuni componimenti, si concentrano sulle «vicende terribili» del secolo: «L’Europa spezzata/ci trascinava nei suoi uragani»; «gettati a una catastrofe di continenti»; «ora piegati nella sconfitta/alla ricerca insanguinata/d’un’altra città». Scava ancora, fino allo scoramento attonito, i nuclei lirici nati dal rovello che dà il pensiero delle imposte violenze. E le nomina: «Apprendemmo/a invocare il sangue e la strage/per salvarci dai roghi e dai forni/della purificazione della razza». Nulla è stato tralasciato delle acquisizioni formali conseguite nelle prove precedenti. E restano, di quello stupito abbandono che invade Ingrao di fronte alla natura, avvincenti rese in scansioni visionarie. Storia e natura come una tensione non resolubile e tuttavia stabile e immutabile.

Spiega Ingrao: «Quando dico “volevo la luna”, nomino l’esigenza di un salto, prima di tutto nel linguaggio e… per continuare a leggere cliccare:

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