Lavoro: com’è andata nel 2017 e le sfide dell’anno che verrà di Valigia Blu
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di Francesco Seghezzi
Avvicinandosi la fine dell’anno i tempi sono maturi per i bilanci. E il fronte del mercato del lavoro sembra essere uno dei più complessi per una analisi di questo genere poiché è ormai diventato tra i principali campi di battaglia tra governo e opposizione. Battaglia da combattersi con le armi pungenti e spesso non convenzionali dei numeri e dei dati che, si sa (o forse spesso ce lo si dimentica) possono essere facilmente manipolati per sostenere una tesi o un’altra. Il 2017 però ha visto una novità che ha aiutato a leggere in modo più esaustivo, mantenendo il giusto livello di complessità, l’andamento del mercato del lavoro. Istat, Inps, Ministero del lavoro, Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) e Anpal (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro) hanno iniziato a diffondere trimestralmente una analisi integrata del mercato del lavoro che può aiutare anche chi non è un addetto ai lavori a comprendere differenze importanti, che spesso traggono in inganno e generano disorientamento, tra diversi dati. In particolare la differenza tra dati amministrativi, che si generano a partire dalle comunicazioni che le imprese fanno al Ministero del lavoro o all’Inps nel momento dell’attivazione e della cessazione di un contratto e dati statistici, che l’Istat sviluppa a partire da interviste periodiche con un campione della popolazione italiana. Si capisce così come sia possibile che ogni anno vi siano diverse migliaia di nuovi contratti di lavoro ma il numero dei nuovi occupati sia molto inferiore, si tratta infatti nel primo caso di dati di flusso (un contratto può essere attivato da una persona che già era occupata o può essere attivato più volte all’anno) e nel secondo caso di dati di stock che offrono un quadro dell’esistente in un determinato momento storico. Non possediamo ancora tutti i dati per poter dipingere un quadro del 2017, infatti i dati a nostra disposizione arrivano fino al mese di ottobre ma consentono di elaborare alcune riflessioni, anche per poter delineare alcune sfide per il 2018. Innanzitutto il numero degli occupati che, al contrario delle analisi che spesso si vedono, è un indicatore più importante del tasso di occupazione perché ci mostra quante persone lavorano nel nostro paese rispetto all’intera forza lavoro. Il tasso di occupazione ad ottobre era dell’58,1% ed è stabile a questa cifra da agosto, dopo essere cresciuto rispetto al 57,4% dell’ottobre 2016. Si tratta di un tasso che, pur essendo distante dal 58,8% del mercato del lavoro pre-crisi, mostra segnali di miglioramento e corrisponde a oltre 23milioni di lavoratori, con una crescita di 246mila occupati in un anno. Un dato però che se analizzato meglio conferma anche due grandi limiti. Il primo in chiave comparata, che consegna all’Italia il penultimo gradino del podio (a seguire la Grecia), il secondo in chiave qualitativa mostra come molta della nuova occupazione recuperata a partire dal 2013 sia a part-time involontario (ossia occupati che vorrebbero un full time ma non lo ottengono), a tempo determinato (circa il 90% dei nuovi occupati nell’ultimo anno) e concentrata soprattutto sulle fasce d’età più avanzate. Questi elementi possono contribuire a spiegare il perché il recente rapporto Censis utilizzi la categoria del rancore per descrivere il sentimento che domina la ripresa economica. Al di là della condivisione o meno del concetto di rancore, discutibile in questo riferimento, l’immagine ben si sposa con un numero di occupati che è sì cresciuto ma che allo stesso tempo ha visto il numero di ore lavorate diminuire del 5% e le retribuzioni essere sostanzialmente ingessate. Un calo del 5% che appare giustificato proprio dai dati sul part-time e sul tempo determinato. E i numeri sul tempo determinato sono confermati anche da parte dell’INPS che proprio ieri ha diffuso le cifre dei primi 10 mesi del 2017 dalle quali emerge come solo il 23,6% dei contratti stipulati sia stato a tempo indeterminato e come questi siano diminuiti di 12mila unità. Vi è poi il fronte dell’occupazione suddivisa per classi d’età. Un dato è spuntato negli ultimi giorni senza che sia stato notato dalla stampa e dalle agenzie: il numero dei NEET (i giovani che non studiano e non lavorano) è cresciuto di 206mila unità del III trimestre 2017. Una crescita determinata interamente dalla componente degli inattivi e non da quella dei disoccupati. Dato che contribuisce a mettere in cattiva luce i risultati del piano “Garanzia Giovani” che aveva come obiettivo principale quello di ridurre l’inattività giovanile, obiettivo che ha conseguito per un breve periodo fornendo ai giovani tirocini che si sono rivelati nel 75% dei casi temporanei, riconsegnando così dopo sei mesi centinaia di migliaia di ragazzi all’inattività. Allo stesso tempo però è importante sottolineare come negli ultimi mesi la crescita occupazionale abbia riguardato anche le classi d’età più giovani, dopo anni in cui la quasi totalità della nuova occupazione era stata composta da over 50. Ciononostante i tassi di occupazione della classe 15-34 anni sono ancora di circa 7 punti inferiori al 2008, rendendo evidente chi ha pagato di più gli anni di crisi. Tecnologia, demografia, globalizzazione: le sfide del nuovo anno Ma fin qui si tratta di pure statistiche che dipingono uno scenario senza fornire una lettura complessiva, che resta molto difficile da realizzare. Sicuramente vi sono almeno tre fattori da tenere in considerazione, alla luce di quanto riportato, per approcciare il nuovo anno: tecnologia, demografia, globalizzazione. Partiamo dall’ultimo perché è quello che potrebbero risultare il più strano. Si parla infatti di globalizzazione da quasi trent’anni e non sembrerebbe certo una novità. Al contrario invece siamo di fronte ad una fase nuova resa possibile dal fatto che la tecnologia consente non solo connessioni tra sistemi informatici ma tra sistemi fisici (Internet of things). Questo porta a livelli di integrazioni tra filiere sempre più forti, sviluppando quelle che sono state definite “catene globali del valore” che rimpiccioliscono i mercati internazionali. Questo fa sì che anche i mercati del lavoro siano sempre più globali, rendendo difficile per le normative nazionali un controllo. La sfida diventerà quindi quella di posizionare le imprese in cima a queste catene globali investendo in innovazione e in capitale umano, questo può portare a creare lavoro di qualità nelle economie locali costruendo nuove geografie del lavoro. Emerge già da questo primo punto il ruolo che la tecnologia avrà nel modificare il mondo del lavoro. Al momento non esistono dati certi sul nostro paese, ma a ben vedere neanche sugli altri paesi, che la tecnologia distrugga più lavoro di quanto ne crei, anzi il 2017 è stato proprio un anno nel quale diversi studi sono andati controcorrente mostrando proprio come nuove attività e nuovi servizi introdotti dall’innovazione hanno portato a creare nuova occupazione in ambiti fino a poco tempo fa imprevedibili. L’Italia è solita (negli ultimi decenni) arrivare in ritardo all’appuntamento con l’innovazione tecnologica ma il 2018 sarà un anno particolarmente importante perché si inizieranno a vedere gli impatti sul lavoro degli investimenti che le imprese hanno fatto grazie al Piano Industria 4.0. Interessante sarà vedere se gli effetti saranno positivi in termini di nuove competenze, nuove professioni e ricadute sulla produttività o se l’investimento in tecnologia sarà sconnesso da un ragionamento sul lavoro e sulle competenze, portando quindi molto probabilmente a conseguenze negativa. Il terzo elemento, forse il più forte come impatto ma il più lento come realizzazione, è quello demografico. I dati del 2017 non sono incoraggianti, da ultimo ieri l’Inps ha mostrato come siano in aumento le famiglie italiane che sopravvivono unicamente con un reddito dato dalla pensione, e a fronte di un costante invecchiamento della popolazione in virtù di aumento della speranza di vita e del calo delle nascite possiamo immaginare che il trend proseguirà e con esso le difficoltà del nostro sistema di welfare. Particolare attenzione sarà da riservare a una categoria che negli ultimi mesi ha visto un forte aumento ossia i disoccupati over 50, che con l’esaurirsi degli ammortizzatori sociali in molte aziende che non hanno superato una situazione di crisi si ritrovano senza lavoro e senza reddito con la difficoltà di riqualificarsi. L’augurio è che le politiche attive possano finalmente prendere il largo, anche se non sono pochi i dubbi dato l’assetto istituzionale che si è creato dopo il referendum del 4 dicembre 2016. In ultimo il 2018 sarà l’anno in cui si vedrà se le assunzioni fatte beneficiando degli sgravi contributivi del 2015 verranno confermate o se, alla scadenza dei 3 anni che implica un costo aggiuntivo in media di 5.500 euro annuo per lavoratore si assisterà ad un aumento dei licenziamenti, complice anche l’assenza dell’articolo 18. C’è da augurarsi che questo non accada, in caso contrario l’assenza di politiche attive risulterebbe un vero e proprio boomerang generato da un “Jobs Act” rimasto a metà del guado.
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