LA SINISTRA CHE ENTRA

UNA SINISTRA OLTRE IL NEOLIBERISMO E IL POPULISMO, NON PIÙ CHIUSA IN SE STESSA

DI: CARLO CROSATO,

CATEGORIE: POLITICA INTERNA

LA SINISTRA CHE ENTRA.

Sembra ineluttabile la necessità di iniziare a delineare i destini della nostra Sinistra partendo dall’esito del referendum. Potrebbe tuttavia essere interessante esercitarci in questo compito non soffermandosi solo su risultati, flussi, vincitori o vinti, bensì sugli aspetti che, annosi, sono emersi in maniera preoccupante nella riforma e nella campagna referendaria.
Sono principalmente due le categorie che devono attirare la nostra attenzione: quella neoliberista e quella fin troppo inflazionata del populismo. Si tratta di due elementi dello scenario politico che, prima di essere studiati nei rapporti che intessono tra loro, andrebbero compresi nella loro essenza singola, pena la penetrazione nel dibattito pubblico di un loro significato malinteso. Le incomprensioni hanno già ampiamente toccato la categoria del populismo; ma, dall’altra parte, nemmeno quella del neoliberismo si salva.
La comprensione di questi due poli fondamentali della realtà politica è la prima sfida. Essa rappresenta, al contempo, un obiettivo e una questione di metodo, un fine e l’armamentario da sfruttare per tendervi. A ostacolare il tentativo di sviluppare un’analisi precisa, diffusa e condivisa delle nozioni di populismo e neoliberismo atta a circoscrivere gli effetti di questi due fenomeni, infatti, ci sono esattamente questi due fenomeni: essi sono i principali responsabili dell’impossibilità di costruire un discorso critico e alternativo su cosa essi siano. Ne deriva, per converso, che quella che potrebbe parere una speculazione semplicemente teorica è, in realtà, già una pratica di resistenza e di superamento delle loro restrizioni: la più importante oggi, perché la più fondamentale rispetto a tutte le altre.

In che maniera l’osservazione critica dei due concetti di neoliberismo e populismo è già, in sé e nel suo percorso, una pratica di resistenza? In via preliminare, si potrebbe sostenere che l’elemento che accomuna i fenomeni, altrimenti molto differenti, di populismo e neoliberismo è la capacità di rimuovere gli strumenti utili agli individui per riflettere su tali fenomeni e liberarsi così da essi. Strumenti che sono, prima di tutto, quelli che la democrazia invece tende a edificare e a rendere operativi. Si potrebbe insomma affermare che elemento comune di questi due aspetti del nostro mondo sociale è la capacità di opporsi e limitare la democrazia. Alla domanda che chiede cosa caratterizzi il nostro tempo, si può rispondere che centrale è lo svanire, al di là delle apparenze, dell’essenza democratica delle nostre società.
Da un lato, non semplice riattivazione del liberalismo classico in chiave finanziaria e nemmeno piano occulto messo in opera da un gruppo di pochi supercattivi, il neoliberismo è una razionalità diffusa penetrata nella vita, individuale e collettiva, di tutti noi, che si moltiplica ogni qualvolta accettiamo la retorica del farsi imprenditori di se stessi, la competizione come paradigma fondamentale delle relazioni, l’insieme di concetti e di norme desunte dal mercato e applicate all’esistenza umana. Si tratta di una dimensione ben differente da quella classica del liberalismo o del liberismo del laissez-faire: ora gli apparati politici – come era evidente nella riforma bocciata il 4 dicembre – ricoprono il ruolo attivo di sgonfiare la democrazia, permettendole di sopravvivere solo nelle sue parvenze procedurali ed esteriori, con il movente di promuovere il benessere economico, ma in realtà con il fine di costruire un ambiente asettico entro cui ogni individuo funzioni come un’azienda in competizione con tutte le altre. Agli individui il neoliberismo chiede di essere interesse di se stessi, imprenditori della propria vita, senza tutele, senza relazioni che non siano quelle costruite sul calco del business, sempre impegnati nel calcolo delle perdite e dei guadagni di ogni scelta.
Dall’altro lato, la reazione comunemente connotata come “populismo” e sostenuta dalla promessa di abbattere i cosiddetti “poteri forti”. Il populismo, non intendendo la vera natura del neoliberismo (razionalità diffusa e non piano pseudo-massonico), e confondendo chi beneficia di esso con chi ne è responsabile, intende ergersi a difensore del popolo contro una presunta congiura di pochi ricchi contro i troppi poveri. La parola deve tornare al popolo; ma il dibattito aperto dal populismo è drogato dalla presenza del capo, che non promuove una riflessione matura e non lavora a una sintesi, ma detta alcune parole d’ordine, alcuni slogan che il popolo dovrà ripetere e moltiplicare in modo automatico. Quello populista non è un dialogo democratico, essendo più simile a uno schiamazzo in cui ognuno ripropone – isolato, come un atomo di fronte al pc – la propria versione dell’insegnamento del capobanda.

Il contesto sociale, dunque, è caratterizzato da una promessa, da destra, di benessere al costo della democrazia realmente intesa, e da una reazione, sempre da destra, consistente nella ricostruzione di una forma superficiale di “democrazia” mediante la lotta contro un presunto establishment. Si erode lo spazio di una ben intesa sovranità del cittadino in un ambiente democratico, in favore di una mera finzione di democrazia. La democrazia è, in un senso, svuotata della sua essenza più intima, mentre vengono conservate – almeno per ora – le sue sembianze esteriori. In un altro senso, la democrazia viene riattivata come un accavallarsi di voci che non fanno che ripetere in modo ottuso il verbo del capo. È fra questi due poli – altrettanto drammatici perché rendono impossibile una loro osservazione critica – che si impone il compito della nostra Sinistra. La sfida del neoliberismo è gravosa e imponente: vogliamo che tale sfida proveniente da destra sia risolta con gli strumenti dello stesso cretinismo di una destra populista?
Una sinistra che non sia capace di mettere i propri piedi in questo scenario da brivido è una sinistra destinata a replicare le movenze neoliberiste (da Blair a Renzi non mancano gli esempi di sinistre inconsapevolmente neoliberiste) o a sfruttare gli strumenti abbietti del populismo (come molti attivisti da sinistra del M5S accettano che si faccia).
Il compito è dunque quello di risvegliare un dibattito profondo su tali dimensioni che informano in maniera subdola e pervasiva il nostro vivere. Un compito che sarebbe letale definire semplicemente teorico perché la riattivazione del dibattito è già una prima maniera per riattivare un confronto di vera democrazia, un lavoro critico esigente, ma soprattutto condiviso, abbattendo i limiti imposti dalla razionalità neoliberista e dall’ottusità populista. Comprendere questi due fenomeni significa già avere compiuto un passo pratico e storico, di resistenza e superamento dello status quo che essi istituiscono. Significa liberarsi dai vincoli freddamente aziendali del neoliberismo per vestire, con libertà e responsabilità, i panni di una sovranità democratica matura, contro la automaticità populistica. Si tratta, dunque, di una riflessione in cui i soggetti resistono alle dimensioni neoliberista e populista che li vogliono governare loro malgrado; un lavoro in cui i soggetti democratici si riappropriano degli strumenti teorici e pratici che neoliberismo e populismo sottraggono loro, e in cui prendono consapevolezza di essere attori autonomi in uno scenario sociale che li riconosce tali.

La sfida del referendum, oltre ad aver portato alla luce fenomeni annosi, ha anche scoperto le carte dei vari giocatori in campo. Se Berlusconi ha, fin da subito, dimostrato la volontà quasi machiavellica di fare il doppio gioco per non perdere il treno della vittoria, se Salvini ha dato l’impressione di non aver mai letto la riforma, limitandosi alla sola intenzione di cacciare Renzi, solo dopo il voto si sono chiariti i piani dei 5Stelle: riportando il dibattito a un alto livello di competizione e calpestando così lo spirito compositivo della Costituzione che affermavano di difendere, ora sono pronti a vendere l’anima pur di condurre il Paese al voto con una legge elettorale opportunisticamente accettata.
Un partito di Sinistra deve, a un tempo, svincolarsi dalla ricerca del salvatore della patria, del comandante solitario, liberarsi dalla brama cieca di potere, e attivare un dibattito che nelle forme, nella sostanza e nelle finalità sia davvero democratico. La via maestra per assolvere questa missione è un’idea di partito nuova; e nuova prima di tutto nell’inversione del suo rapporto con la società.
Deve finire l’era del partito autoreferenziale, avvitato su discussioni interne e legato solo alle battaglie intestine tra individui autocentrati. E l’idea di aprire le porte per ideare un partito accogliente e inclusivo è valida, ma rivedibile: non più un partito che apre le porte per far entrare la società, ma un partito che apre le porte per entrare nella società. Un partito che esce da se stesso per entrare nei luoghi di studio, nei luoghi di lavoro, nei luoghi di solitudine e di vulnerabilità dove c’è il soggetto debole e indifeso che da sempre e per sempre rappresenta il motivo di esistenza della Sinistra. Non più centro dove radunarsi, il partito di Sinistra deve essere una dispersione di persone, di concetti; di un nuovo lessico, da far entrare nei luoghi della vita reale, da discutere e declinare secondo le sensibilità e le esigenze di chi abita quei luoghi. E solo mediante e dopo questo ingresso nella vita reale e questa dispersione di persone e idee, si può formulare l’invito a riferirsi al centro di adunata che sarà il partito, riportandovi le sensibilità e i pensieri che nella società si sono formulati.
Solo così si può immaginare di eliminare un certo paternalismo della sinistra, così come una certa sterile autoreferenzialità. Solo mediante un cambiamento radicale di postura: un decentramento utile a rendere protagonista davvero chi finora doveva accontentarsi di una mera rappresentanza, e forse nemmeno di quella. Un partito di Sinistra ha il coraggio di riprendersi quegli strumenti di riflessione e resistenza che neoliberismo e populismo eliminano; ha il coraggio non solo di aprire le porte, ma di uscire da quelle porte e da se stesso, per entrare nella vita concreta, federando studenti sotto il proprio nome, per la discussione di ciò che ammala la nostra società; federando docenti universitari, per la creazione di un piano di lavoro serio e rivolto al chiarimento nelle università di quei fenomeni; federando i lavoratori, per costruire con loro una nuova consapevolezza della lotta contro una strategia invisibile qual è quella neoliberista; incontrando i disoccupati e i poveri, per istituire un discorso alternativo a quello che colpevolizza la povertà; e infine incrociando queste diverse esperienze, permettendo a queste reti federative di intersecarsi e annodarsi, di mettere in comune: solo dai nodi di queste esperienze diffuse emergerà la linea del partito, come punto di emergenza di una esperienza concreta, e non come programma da imporre dall’esterno.

Si tratta di rendere metodo ciò che è finora stato pensato solo come fine. Nello sfacelo che evidentemente caratterizza il M5S, è possibile tuttavia individuare un punto di forza innegabile: la capacità di fondere il fine e i mezzi per raggiungerlo, di proporre la questione della democrazia diretta già in termini di democrazia diretta. Bene, impariamo da anche dal fallimento di questo progetto, per far di più e meglio: una vera democrazia che nasce dalla resistenza contro le forze che la annichiliscono, che si fa metodo democratico per realizzare un fine democratico; un partito di Sinistra che entra nella vita della società, che la rende davvero protagonista, che la ascolta nei luoghi in cui si svolge, che riporta al centro le esperienze sparse per un progetto unitario e condiviso.

fonte: esseblog

La Sinistra che entra.