La Francia difende la sua cultura. E quella dell’intera Europa

paris2Si apprende in questi giorni dai media di un’intesa di massima tra Stati Uniti e Unione Europea, nel quadro delle discussioni del G8 in Irlanda del Nord, orientata alla costituzione di una zona di libero scambio tra quelle che sono le due maggiori aree economiche del pianeta. Si apprende inoltre di una polemica aperta dal presidente della Commissione Europea Barroso contro il governo francese, che ha posto il veto a che la produzione culturale sia inserita tra quanto andrebbe liberamente scambiato, in modo che essa possa continuare a essere oggetto di tutele finanziarie o fiscali o doganali (da parte europea). Sembra una questione minore. E’ invece una grande questione, per molte ragioni.Intanto non si tratta di novità. Da vent’anni, nel contesto delle infinite trattative orientate alla liberalizzazione degli “scambi” (e di tutto il resto dell’economia) nel mondo, tramite principalmente l’Organizzazione Mondiale del Commercio, è in ballo anche la questione degli scambi della produzione culturale. Da anni, quindi, è merito della Francia (e solo, purtroppo, della Francia, e di tutti i suoi governi, quali che ne fossero i colori) la difesa della produzione culturale francese e, a rimorchio, delle altre europee (quindi di quella italiana: della cui difesa i governi italiani, quale che ne fosse il colore, si sono sempre stropicciati). Ricordo come anche un pezzo un tempo significativo della sinistra italiana, poi distrutto dai vari ciarlatani al comando, attraverso Luciana Castellina abbia accanitamente combattuto per dieci anni con successo in Parlamento Europeo a difesa delle identità culturali europee, contro i tentativi di “libero scambio” culturale da parte di OMC, Commissione Europea, ecc., nel quadro del cretinismo liberista imperante.Perché si trattò e si tratta oggi, da parte francese, di una battaglia sacrosanta. Se è vero che il mercato dei prodotti culturali (cinema, audiovisivo, musica, ecc., più i nuovi prodotti ad alta tecnologia informatica e via web che via via vengono aggiungendosi) è diventato un mercato gigantesco, se è vero, inoltre, che esso impiega milioni di lavoratori e di altre figure di operatori, se è vero, infine, che il “libero scambio” culturale sarebbe suscettibile di incrementi occupazionali, è anche vero che si tratta di un mercato nel quale Hollywood la fa da padrone, con circa il 60 per cento della produzione del pianeta, è anche vero che ciò mette Hollywood in una posizione di vantaggio insuperabile, quindi in grado di far fuori ogni altra grande entità produttiva, infine è vero che un dato di questa supremazia competitiva statunitense è, dal lato europeo, ineliminabile: quella determinata dal fatto che gli Stati Uniti producono tutto in lingua inglese mentre l’Europa è fatta di paesi che producono in una miriade di lingue. Ciò abbatte i costi di produzione statunitensi e alza quelli europei: a meno che ci si metta in Europa a parlare tutti in inglese o in tedesco o in francese o in esperanto o in maltese. Ciò che già accade oggi in Europa a danno enorme della nostra produzione culturale (e del cervello delle nostre popolazioni) andrebbe con il “libero scambio” culturale a mille: alludo alla montagna di film spazzatura a base di killer seriali o di poliziotti che sparano in mezzo alla folla o extraterrestri cattivi o di altre stronzate di cui sono pieni i canali televisivi nella fascia d’ascolto di prima serata (e si potrebbero fare molti altri esempi, in specie sul piano musicale). La ragione di questo fatto è molto semplice: le stronzate statunitensi costano alle nostre televisione molto meno degli stessi più risparmiosi film europei.Il “libero scambio” produce occupazione, ha detto Barroso, la Francia è reazionaria. Non è mica così vero, o meglio, la questione è un po’ più complicata. Al netto è vero che il “libero scambio” può produrre più occupazione (si noti: può farlo: infatti non sempre accade): ma è anche vero che ciò di norma avviene attraverso la penalizzazione di alcune realtà a vantaggio di altre. E’ facile un grande esempio: è vero che il “libero scambio” molto ampio di merci e di mezzi finanziari di questo trentennio liberista ha prodotto al netto una grande espansione dell’occupazione mondiale, ma l’Europa ne è stata danneggiata e l’Italia più di tutti in Europa. Come vada concretamente dipende quindi dalle caratteristiche dei vari paesi e delle varie aree del mondo.
La questione, poi, non è soltanto commerciale od occupazionale. Ammesso, ma solo per un attimo, che valga la pena, faccio per dire, di rovinare la produzione di patate della Scandinavia liberalizzando a fondo il mercato mondiale delle patate, i prodotti culturali non sono patate. Gli esseri umani si distinguono dagli altri animali per essere animali culturali. Il progresso culturale e la sua espansione sono fattori positivi di civiltà su tutti i terreni. Il nostro benessere si compone anche di benessere culturale. La regressione civile è sempre anche regressione culturale; e, viceversa, ogni regressione culturale facilita incrementi di regressione civile. Tutto questo oggi in Occidente si vede bene, e in Italia in modo particolare. Nella storia dell’umanità l’annullamento culturale di un popolo è sempre stato anche l’annullamento di quel popolo.
In breve, milioni di esseri umani da culturali, ergo dotati di intelligenza e di ragione si formano in tali contesti regressivi come imbecilli o si riducono a imbecilli. Ed è bene sapere che ciò avviene a tutti i livelli della società, dell’economia o della politica: non si creda che le vittime siano solamente ai piani bassi. Il presidente della Commissione Europea Barroso è di ciò un buon esempio.
Luigi Vinci