I possibili profili di illegittimità costituzionale del Jobs Act (nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri il 24/12/14) riguardano essenzialmente la disparità di trattamento tra i lavoratori che manterranno le tutele previste dall’articolo dello 18 Statuto dei Lavoratori [Statuto] e quelli che verranno “tutelati” dal Jobs Act. Anzitutto va fatta la premessa che, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, “il legislatore può prevedere un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” (Sentenze n. 254/2014, n. 25/2012 e n. 224/2011). Tuttavia, la stessa Corte ha anche affermato che “l’articolo 3 della Costituzione consente al legislatore di valutare le situazioni obiettive e di adottare le corrispondenti normative, col limite di dover disciplinare in modo eguale le situazioni eguali ed in modo diverso quelle differenti e sempre che in contrario non ricorrano logiche e razionali giustificazioni” (Sentenza n. 62/1972). Dunque, il regime dei licenziamenti previsto dal Jobs Act va esaminato alla luce del principio di ragionevolezza (inteso come limite all’esercizio del potere discrezionale del legislatore) in quanto, una volta che il Decreto legislativo entrerà in vigore, avremo milioni di lavoratori dipendenti che manterranno le tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto e altri che avranno una tutela molto attenuata.
Adesso analizziamo, punto per punto, i possibili profili di incostituzionalità del Jobs Act.
1) L’abolizione dell’inversione dell’onere della prova per i nuovi assunti. I lavoratori assunti col contratto regolato dal Jobs Act, qualora venissero licenziati per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, per poter ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, dovranno direttamente dimostrare in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, mentre per gli altri lavoratori continuerà ad applicarsi la disposizione prevista dall’articolo 5 della Legge 604/66 secondo cui “spetta al datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo”. Facciamo un esempio pratico: Tizio e Caio, entrambi dipendenti della stessa impresa, il primo assunto prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, il secondo dopo. Entrambi, accusati di aver rubato dei beni aziendali, verranno licenziati per giusta causa. In caso di ricorso contro il licenziamento, Caio dovrà provare l’insussistenza del fatto contestatogli (altrimenti il giudice gli rigetterà il ricorso) mentre Tizio non è gravato da questo onere, in quanto spetterà al datore di lavoro (che si dovrà costituire in giudizio nei termini di legge) provare la sua colpevolezza. E’ evidente, quindi, la disparità di trattamento tra due situazioni identiche, tra l’altro non giustificata da alcun bilanciamento di valori costituzionali. Perciò, l’articolo 3, comma 2, del Jobs Act potrebbe essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede l’onere del lavoratore di provare direttamente in giudizio l’insussistenza del fatto contestato.
2) Il divieto del giudice di valutare la sproporzionalità del licenziamento per i nuovi assunti. Per costante giurisprudenza, il licenziamento del lavoratore per motivi disciplinari è consentito solo quando “qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro” (Cassazione Sezione Lavoro Sentenza del 24/07/03, n. 11516). Il licenziamento del lavoratore deve essere, quindi, l’extrema ratio. L’articolo 18, comma 4 dello Statuto, come modificato dalla Legge 92/12 (cosidddetta Legge Fornero), prevede la tutela reale del lavoratore (cioè la reintegrazione nel posto di lavoro) non solo quando il fatto contestato risulti insussistente, ma anche quando il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa (rimprovero, multa, sospensione dal servizio e dalla retribuzione) sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili (obbligatori ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto). Invece, l’articolo 3, comma 2, del Jobs Act prevede la tutela reale del lavoratore solo nel caso in cui venga direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. Dunque, secondo il dettato normativo, se il lavoratore licenziato vorrà ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro dovrà dimostrare in giudizio l’insussistenza del fatto contestatogli, altrimenti il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro. Tuttavia, in caso di licenziamento disciplinare sproporzionato troverà applicazione la tutela obbligatoria prevista dall’articolo 3, comma 1, del Jobs Act, che prevede il pagamento di un’indennità di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. E’ evidente anche qui l’illegittima disparità di trattamento tra i lavoratori assunti col vecchio e col nuovo contratto di lavoro. In particolare, i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act potranno essere licenziati per qualunque illecito disciplinare, anche se lieve o lievissimo, e addirittura anche se il contratto collettivo o il codice di comportamento prevede, per la condotta contestata al lavoratore, una sanzione conservativa! Perciò, anche sotto questo profilo, l’articolo 3, comma 2, del Jobs Act potrebbe essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro quando il fatto contestato al lavoratore rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
3) La mancata previsione della possibilità di reintegro nel caso in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Secondo l’articolo 3 della Legge 604/96, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quello determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. L’articolo 18, comma 7 dello Statuto, nel testo riformato dalla Legge Fornero, stabilisce che il giudice può (e non deve) ordinare il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro qualora venga accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, mentre negli altri casi di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, al lavoratore spetta unicamente l’indennizzo economico. L’articolo 3, comma 1, del Jobs Act, invece, (oltre a escludere l’obbligo del tentativo di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro prima di procedere al licenziamento) prevede che in caso in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore ha diritto soltanto all’indennizzo economico. Evidente, anche qui, la disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima e dopo l’entrata in vigore il Jobs Act: i primi, in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, possono ottenere dal giudice la reintegrazione nel posto di lavoro, i secondi no. Dunque, l’articolo 3, comma 1, del Jobs Act potrebbe essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che, in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice possa applicare la disciplina di cui al quarto comma dell’articolo 18 dello Statuto.
4) La mancanza della tutela reale in caso di licenziamento intimato senza motivazione o in violazione delle norme sul procedimento disciplinare. Secondo quanto previsto dall’articolo 4 del Jobs Act, infatti, per il licenziamento intimato senza che il datore abbia specificato per iscritto i motivi che l’hanno determinato (ai sensi dell’articolo 2, comma 2 della Legge n. 604/1966) ovvero intimato in violazione delle disposizioni sul procedimento di applicazione delle sanzioni disciplinari previsto dall’articolo 7 dello Statuto, l’unica sanzione prevista a carico del datore di lavoro è il pagamento di un’indennità non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del Jobs Act. Dunque, a parte la riduzione (da sei a due mensilità) dell’indennità minima da corrispondere al lavoratore licenziato, l’articolo 4 del Jobs Act nulla innova rispetto a quanto previsto dall’articolo 18, comma 6 dello Statuto, nel testo riformato dalla Legge Fornero, riguardo i licenziamenti intimati con vizi formali o procedurali. In questo caso, però, il profilo di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 24, comma 2, della Costituzione riguarderebbe sia l’articolo 4 del Jobs Act, sia l’articolo 18, comma 6, dello Statuto Infatti, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale, l’obbligo di comunicare per iscritto l’intimazione del licenziamento e la specificazione dei motivi costituiscono “cautele e garanzie che sono informate al rispetto della personalità umana e costituiscono, altresì, indici del valore spettante al lavoro nella moderna società industriale” (Sentenza n. 174/71) mentre, con riferimento all’articolo 7 dello Statuto, la stessa Corte (Sentenza n. 204/82) ha definito come “principio fondamentale” il diritto di chi è perseguito per un’infrazione, di essere posto in grado di conoscere l’infrazione stessa e la sanzione e che “il contraddittorio tra datore e lavoratore costituisce indefettibile regola di formazione delle misure disciplinari”. Perciò, è auspicabile che la Corte Costituzionale equipari il licenziamento intimato senza motivazione o in violazione delle norme sul procedimento disciplinare al licenziamento intimato in forma orale, sanzionato con la nullità, con la conseguente applicazione della tutela reale prevista dall’articolo 18, comma 1, dello Statuto (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità, non inferiore a cinque mensilità, commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative).
5) L’illegittima esclusione del cosiddetto “Rito Fornero” per i nuovi assunti. Infine, un altro profilo di incostituzionalità del Jobs Act riguarderebbe l’articolo 12 del Decreto che, in maniera incomprensibile e assurda, esclude l’applicabilità del cosiddetto “Rito Fornero” per i lavoratori assunti con il nuovo contratto. Una scelta del Governo davvero irragionevole: non si riesce proprio a capire perché i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act (anche quelli che manterranno il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro!) non potranno avvalersi del “Rito Fornero”, concepito per ottenere un provvedimento giurisdizionale in tempi rapidi, ma dovranno proporre il ricorso “ordinario” ai sensi dell’articolo 414 del Codice di Procedura Civile. I lavoratori regolati dal Jobs Act potranno sempre avvalersi del procedimento cautelare atipico ai sensi dell’articolo 700 del Codice di Procedura Civile, ma saranno gravati dall’onere di provare il “periculum in mora” [pericolo causato dal ritardo] e il “fumus boni iuris” [parvenza di buon diritto].
(avvocato Rosario su www.studiocataldi.it)