di Angelo Gerosa.
La scissione socialista che sì consumò l’undici gennaio 1947 a Palazzo Barberini portò un grave danno alla sinistra ed al paese.
Sei mesi prima della scissione, alle elezioni del 1946 per l’Assemblea Costituente, i socialisti conseguirono un ottimo risultato: secondo partito con 4 milioni e 760 mila voti (20,7%), più della metà della Democrazia Cristiana (35,2%), 400.000 voti in più del Partito Comunista (18,9%) e con la prospettiva di assorbire anche i 350mila elettori (1,4%) del Partito d’Azione, in via di scioglimento.
Dopo Palazzo Barberini questo successo elettorale divenne un pallido ricordo ed il paese ne pagò le conseguenze.
Erano le prime elezioni del dopoguerra ed i socialisti conquistarono un voto di opinione, forte soprattutto al nord ed, in particolate, nelle sue zone più bianche d’Italia, mentre il PCI dimostrò di avere un voto militante, molto radicato nelle regioni rosse e nelle città operaie. Una sinergia capace di garantire una salda maggioranza sia nel centro che nel nord.
Le conseguenze di quella disgraziata scissione si evidenziarono subito nei caposaldi del voto socialista.
In Lombardia, nella provincia di Como, i socialisti nel 1946 presero il 34,5% e tutta la sinistra il 46%. Dopo la scissione, alle elezioni del 1948, il Fronte Popolare (che univa PCI, PSI e ex PdA) prese il 23%, cioè si dimezzarono i voti.
In Veneto, provincia di Belluno, dove i socialisti nel 1946 presero il 28,7%, le cose andarono ancora peggio: la sinistra passò dal 42,5%, al 16% del 1948, cioè perse ben 2 voti su 3.
In Trentino, dove nel 1946 i socialisti presero il 28%, la sinistra perse oltre i 2/3 dei voti passando dal 36%, al 11,5%. del 1948.
In Friuli, dove i socialisti nel 1946 presero il 31,6%, la sinistra passò dal 48%, al 21%.
Il buon risultato ottenuto dagli scissionisti nelle elezioni del 1948 (7%) poteva far sperare che a godere di questo disastro non fosse solamente la DC, ma le elezioni successive, quelle del 1953, dimostrarono che questa speranza era infondata: il PSDI perse voti (scese al 4,5%) e credibilità, in quanto si presentò in coalizione con la DC, in forte contraddizione con la scelta di autonomia espressa al momento della scissione.
Da questa vicenda escì ingigantita la figura di Sandro Pertini.
Il futuro “presidente partigiano, al pari di Saragat, non condivise la scelta (poi dimostratasi elettoralmente infelice) del Fronte Popolare con il PCI ed, al pari della Federazione Giovanile di Libertini e Maitan (che si unì agli scissionisti) non condivise neppure il filo-sovietismo che la sosteneva.
Pertini intervenne a Palazzo Barberini, per riconoscere le ragioni politiche dei presenti, e, nel contempo, per scongiurare la scissione. E fu profetico: grazie a quella maledetta scissione i caposaldi socialisti del nord Italia vennero espugnati dalla DC, per poi divenire lo zoccolo duro del voto Berlusconiano ed oggi essere le uniche regioni d’Italia governate dalla Lega.