(Piergiovanni Alleva “Il Manifesto” del 24 luglio 2018 )
Anch’io ho un’immagine e un ricordo preciso dell’era Marchionne ed è quello dell’uscita, con gli scatoloni in mano, dei delegati della Fiom dallo stabilimento della Magneti Marelli di Bologna.
Il sindacato da sempre maggioritario, e di gran lunga, in questo storico stabilimento, veniva letteralmente cacciato dalle salette riservate ai sindacati.
Salette riservate non da anni ma da decenni ormai all’attività sindacale, e questo indiscutibilmente era il simbolo, almeno per me e per altri operatori giuridici e sociali, dell’era Marchionne.
Come si era potuto arrivare a tanto?
Vi si era arrivati da una parte attraverso una furba e causidica interpretazione dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che consente ai sindacati firmatari di contratti collettivi di formare Rsa e dall’altra da una precisa e algida volontà di prevaricazione da parte dei vertici della Fiat appoggiati dalla quasi totalità di commentatori e di operatori politici.
Detto in breve: poiché l’articolo 19 dello Statuto dava diritto a una presenza organizzata in azienda ai sindacati che si erano conquistati un contratto collettivo, ragionando al contrario, questa presenza non poteva più essere accordata a un sindacato che avesse rifiutato di firmare il classico accordo bidone offerto dall’azienda ad altri sindacati e da essi accettato.
Sembra ancora un incubo, ma proprio questa era in estrema sintesi la dottrina delle relazioni sindacali imposta dai vertici Fiat: si firma un accordo con un sindacato “amico” e solo questo avrà poi la piena cittadinanza in fabbrica, ossia Rsa, permessi, assemblee retribuite, etc.
I dissenzienti e i non firmatari vengono invece condannati all’oscurità e al silenzio.
La resistenza della Fiom fu accanita, a tratti eroica se si ripensa ai tanti lavoratori cassintegrati per anni e discriminati (lo riconobbe poi la Corte d’Appello di Roma) nella possibilità di temporanee riammissioni in servizio proprio perché iscritti alla Fiom.
Per due volte la Fiom riuscì a sottoporre a referendum il contratto bidone attraverso cui la si voleva espellere da tutte le fabbriche Fiat, andando vicinissima a un clamoroso successo elettorale.
Alla fine giunse il giudizio salvifico, ma per nulla garantito della Corte Costituzionale, quell’indimenticabile 13 giugno 2013 nel quale fu restituito all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori il suo senso vero di pacificazione e non già di limitazione e discriminazione delle presenze sindacali.
Landini era presente, emozionato come i suoi avvocati, e girava insistentemente la voce che se si fosse persa quella causa la Fiom sarebbe stata addirittura commissariata.
Ricordo che nell’entrare in aula qualcuno di noi sussurrò, per scherzo ma anche sul serio «qui si fa l’Italia o si muore». Si rifece infatti l’Italia democratica sulla quale confidavamo da diversi decenni, ma che sembrava ormai eclissata: la durissima controversia Fiat-Fiom perse di virulenza avviandosi ad un modus vivendi fra le parti; ma la verità più importante purtroppo era un’altra e cioè che ormai, con la governance di Marchionne, la Fiat non era più un’azienda italiana, uscita persino dalla Confindustria che per tanti anni aveva dominato.
Non voglio e non sono in grado di valutare l’operato comunque sicuramente fuori dall’ordinario del manager Marchionne come stratega finanziario e industriale, ma come democratico non posso cancellare il ricordo di quei timori di involuzione nella vita civile e sindacale.