Stefano Galieni su www.rifondazione.it
Difficile non cadere nella retorica quando se ne va uno dei pochi che è riuscito a cantare una generazione. Una generazione, oggi con i capelli bianchi, che ha attraversato gli anni in cui sembrava che questo paese, questo mondo, potessero cambiare davvero. Claudio Lolli, che se ne è andato ieri a 68 anni, non è stato solo cantautore, poeta, scrittore, militante, professore di liceo. “Quelli come noi”, per riprendere una sua canzone poco ricordata, che lo ascoltavano nei primi anni Settanta, che si lasciavano prendere da quella sua voce così piena “di ragni, di rospi, di rane e altre cose un po’ strane, una voce da regno dei più o da principi del sottosuolo, una voce oltretutto che mi accompagnavo da solo” (sempre per usare i sui versi), erano /eravamo, considerati un po’ a parte. La tristezza profonda, esistenzialista, di molti suoi testi, evocavano adolescenze sofferenti e cariche di nubi e quando qualcuno provava a cantarli, accompagnato dalla chitarra, c’era sempre chi ti diceva “che tristezza” se non ” che palle”. Ma si resisteva e lo si ascoltava ed era facile trovare in quelle che non erano solo canzonette, stralci della propria vita e del proprio affacciarsi alla politica. Perché accanto a versi che sembravano accartocciarsi su un malessere irrecuperabile, esplodevano testi di lotta in cui si provava a raccontare di un mondo che cambiava. Da “Primo Maggio” (dedicata alla liberazione del Vietnam) ad Agosto, testo duro e senza mediazioni sulla strage dell’Italicus, a filastrocche come “Piazza bella piazza” o “Vecchia piccola borghesia” (quanto mai attuale). Ma non si finirebbe mai di citare canzoni senza fare torto ad una o ad un’altra e fa impressione trovare in queste ore sui social, i versi che sembravano dimenticati o rimossi, le frasi che erano entrate prepotentemente ma senza far rumore nel nostro lessico. La critica ufficiale lo ricorda come il cantore del Settantasette e forse, anche se ne limita l’ampiezza, non ha tutti i torti. La sua Bologna in quell’anno cruento non era ridotta, come oggi, a provincia chiusa e ostile. Le sue case si aprivano facilmente alla marea di studenti che provavano a cambiare il mondo. Ma insieme agli studenti arrivarono i blindati di Cossiga, l’uccisione di Francesco Lorusso (“I giornali di marzo hanno parlato”) una repressione potente e insopportabile perché cavalcata dall’allora amministrazione del PCI. Certo il conflitto fra sinistra vecchia e nuova era diventato ormai insanabile e le responsabilità non erano da una sola parte, ricomporre i cocci non era possibile neanche “col vino” (Albana per Togliatti”) e non c’era più spazio per le spinte libertarie allora forti e culturalmente significative. “Anna di Francia” (una delle più belle canzoni scritte da un uomo su una donna) aveva già dato “un bacio alla piazza” e se ne era andata, la luce di Ulrike (Mehinof) era già stata spenta col suicidio di Stato nel carcere di Stammhein (Incubo numero zero) e difficilmente si sarebbero più visti “zingari felici, proprio in Piazza Maggiore, ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra” (Ho visto anche degli zingari felici). La vicenda artistica e militante di Claudio Lolli però non si è conclusa con la fine degli anni Settanta. Tanti i cd, passati spesso in sordina e poco appetibili per un grande pubblico sempre meno militante a cui l’assenza di velleità commerciali non piaceva. Tante le collaborazioni con altri artisti e gruppi, i libri, le contaminazioni fino all’ultimo cd, “Il grande freddo” realizzato con il crowdfunding lanciato via web e che lo ha portato a vincere il “Premio Tenco” 2018. Insomma un’altra grande voce che si è spenta, di quelle che potevano ancora ricordarci ciò che siamo stati per continuare a voler cambiare il mondo senza rinunciare a tirar fuori i nostri sentimenti, le debolezze, le inadeguatezze e le miserie, individuali e collettive. Restando dalla parte del torto ma senza diventare figure mitiche. Ciao Claudio, che ci hai insegnato in fondo a non aspettare Godot.