Italia: 260 mila minori devono lavorare per vivere

Lavoro minorile, sono 260 mila i ragazzini che in Italia si guadagnano da vivere

Il rapporto di Save the Children, “Lavori Ingiusti”, indagine sul fenomeno e sul circuito della giustizia penale, per la Giornata mondiale contro il lavoro minorile. Intervistati 439 ragazzi: il 66% racconta di aver lavorato prima dei 16 anni. Oltre il 40% ha cominciato prima di 13 anni e l’11%  prima degli 11 anni. Sette su 10 sono italiani; gli altri arrivano da Romania, Albania e nord Africa. C’è chi ha iniziato a sette anni

di VALERIA TEODONIO

ROMA – “Mamma e papà erano tossicodipendenti. Lo sono sempre stati. Quando ero molto piccola, loro si chiudevano in bagno e quando uscivano stavano sempre male”. Francesca (il nome è di fantasia) inizia a lavorare a 13 anni. Lava le scale nei condomini, fa le pulizie nelle case. E non va a scuola. Deve guadagnare, non vuole pesare sui suoi. Poi la portano in una casa famiglia e iniziano i guai con la giustizia. Francesca è una delle centinaia di ragazzi rinchiusi nelle carceri minorili italiane. E come la maggioranza degli adolescenti finiti poi nel giro della piccola criminalità, ha lasciato la scuola troppo presto ed ha iniziato a lavorare. I minori come lei finiscono così nel giro dello sfruttamento, spesso per aiutare la famiglia in difficoltà. Ma sei su dieci lo fanno per avere qualche soldo in tasca in più. Non sempre, dunque, provengono da famiglie poverissime.

Non solo disagi o povertà. Molti ragazzini appartengono anche a fasce sociali meno disagiate. La provenienza geografica è varia: molte regioni italiane, da Nord a Sud. Sono impegnati come manovali, meccanici, braccianti agricoli, camerieri. E molti sono giovanissimi: 11-12 anni. Lo dice il rapporto di Save the Children, “Lavori Ingiusti”, indagine sul lavoro minorile e il circuito della giustizia penale, che viene presentato oggi in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile. Sono stati intervistati 439 ragazzi: il 66 per cento racconta di aver lavorato prima dei 16 anni. Oltre il 40 per cento ha avuto esperienze lavorative al di sotto dei 13 anni e l’11 per cento ha svolto delle attività persino prima degli 11 anni. In oltre 7 casi su 10 casi si tratta di giovani italiani, gli altri in genere arrivano da Romania, Albania e Africa del nord. Più di 7 adolescenti su 10 dichiarano di aver lavorato quasi tutti i giorni, oltre 4 su 10 per più di 7 ore di seguito al giorno; e oltre la metà di sera o di notte.

Se si nasce nel momento sbagliato. “Lavoravo quando capitava – racconta Francesca, oggi 17 anni – soprattutto di giorno. Una conoscente aveva una ditta di pulizie. Certo, mi rendevo conto di essere piccola. Ma ho avuto un sacco di casini in famiglia. Poi, quando ho compiuto 5 anni, è nato mio fratello. Anche lui è arrivato in questo mondo in un momento sbagliato”. E ancora: “Quando avevo 7 anni, siamo andati a vivere con la nonna. La scuola mi piaceva, ho fatto le elementari e le medie. Non mancavo mai, ero sempre presente. Una brava bambina come tante altre. Mio zio ci teneva, non voleva prendessi una cattiva strada. Ma quando avevo 13 anni ci portarono via e ci chiusero in una casa famiglia. Fu una tragedia, mio fratello era disperato e io ero disorientata, ma dovevo pensare a proteggerlo. Poi ho lasciato le superiori, non me ne fregava più niente. In quegli anni ho preso una brutta strada. Ero arrabbiata. A 15 anni mi hanno arrestata per aggressione. Adesso sto facendo un corso, sono più calma e voglio fare di tutto per avere un futuro migliore, soprattutto per mio fratello”.

La storia di Giuseppe.
 

“Ho cominciato a 14 anni”.
 In Italia sono 260mila i ragazzi e le ragazze fra i 7 e i 15 anni che lavorano, pari al 7 per cento della popolazione in questa fascia di età, in pratica un minore su 20. Come Giuseppe (nome di fantasia), oggi diciottenne: “Ho cominciato a lavorare da piccolo, a 14 anni. Ho fatto il meccanico, ma non mi piaceva, mi facevano fare soltanto cose banali, come pulire. Non mi trovavo bene né con il capo né con i colleghi, perché mi trattavano come ‘il piccolino’. Lavoravo dalle 8.00 alle 12.00 e poi dalle 14.00 alle 19.00. Ho imparato poche cose, e alla fine mi trovavo sempre a guardare il pavimento. Mi avevano promesso che mi avrebbero assunto, invece dopo un mese di lavoro non mi hanno più preso. A scuola ho provato, ma poi mi hanno bocciato un paio di volte e ho lasciato perdere. Poi ho fatto sempre lavoretti, anche quando era un po’ più grande, ma erano sempre occasionali, lavavo le macchine o facevo le pulizie”. 

“…E allora mi aiuto da solo”. “A volte lavoravo anche con mio fratello – prosegue il racconto di Giuseppe –  Lo facevo per aiutare mia madre, per non chiederle sempre i soldi. Cercavo lavoro come barista, come commesso, ma non mi prendevano perché non avevo esperienza in quel campo. Poi a 17 anni mi hanno arrestato per rapina e aggressione. Hanno arrestato anche mio fratello. Andavamo in giro con altri 3 o 4 ragazzi, capitava di incontrare altri ragazzi e magari, per far vedere che eravamo i più forti, iniziavamo a litigare. Nel frattempo, mentre ci picchiavamo, prendevamo portafogli e cellulari. Se avessi trovato un lavoro buono, non avrei fatto questi casini. Lo Stato non ti aiuta a trovare lavoro e mi sono detto, se non mi aiuta lui, mi aiuto da solo. Non potevo chiedere sempre a mia mamma. Siamo tre figli e lei guadagna poco, con 800 euro al mese deve pagare le bollette e tutte le spese. 

“Mi piacerebbe fare il muratore”. “Qualsiasi ragazzo a quel punto penserebbe ‘ora vado in giro e faccio una rapinà anche se i tuoi non te lo chiedono. Se mi avessero offerto un lavoro, un lavoro serio, 6 ore al giorno, a 600 euro, anche se mi avessero sfruttato, io ci sarei andato e non avrei fatto casini. Ho sbagliato e ora sto pagando, ma quando uscirò voglio andare a lavoro, voglio un lavoro vero, perché non voglio fare una vita da criminale. Qui in carcere sto lavorando. Qui mi stanno aiutando molto. Ho fatto il giardiniere e adesso il muratore. Mi piacerebbe fare il muratore una volta fuori da qui, il sabato vado in un cantiere e spero di poter continuare. Quando mia madre viene a trovarmi, le faccio vedere quello che ho fatto in carcere e lei è più orgogliosa di me. Ma comunque pur di lavorare farei qualunque cosa”. 

L’autrice della ricerca. “La cosa che più mi ha colpito è che questi giovani non hanno più sogni – spiega l’autrice della ricerca, Katia Scannavini – non hanno più desideri, il loro è un tempo senza prospettiva, contano solo le esigenze del momento, l’insicurezza sociale e lavorativa sminuisce il valore dell’istruzione, perché sono portati a pensare solo al presente”.

Il nodo, dunque, è la scuola. La prima cosa da fare – è l’analisi dei ricercatori – è quella di intervenire sulla dispersione scolastica, che in Italia è altissima. “La scuola viene vissuta come un ostacolo – spiega Raffaela Milano, direttore Programmi Italia Europa di Save the Children – e non come un alleato nella formazione. La storia di questi ragazzi parte dalla disaffezione alla scuola, una scuola dalla quale non si sentono accolti. La loro è un’esperienza lavorativa distruttiva e non professionalizzante, che diventa una porta di ingresso alla criminalità. Bisogna intervenire per recuperare il valore positivo nei confronti del lavoro, con programmi di formazione e di inserimento”.

I percorsi di crescita interrotti.
 I ragazzi sfruttati non vengono sempre da famiglie poverissime. E’ un fenomeno che attraversa anche le classi sociali più elevate. Quando non c’è da aiutare la famiglia, si lavora per mantenere un tenore di vita più elevato rispetto agli altri ragazzi. Si considera più importante avere qualche soldo in tasca nell’immediato, piuttosto che investire sul futuro. “Quello che è certo – aggiunge Raffaella Milano – è che anche se non vengono da famiglie in grave difficoltà, hanno comunque avuto un percorso di crescita interrotto. Interrotto gravemente”.

I lavoratori stranieri: la storia di “J”.
 

“La scuola? Magari”. Oltre agli italiani, ci sono anche i giovani stranieri a finire nel circuito dello sfruttamento e poi in carcere: “Sono arrivato in Italia a 15 anni per raggiungere mio padre – racconta J., un giovane marocchino – Il resto della mia famiglia è rimasto nel mio paese. Mio padre faceva il venditore ambulante e io lo aiutavo a vendere vestiti. Ho lavorato nel periodo estivo, al mare. Dalla mattina alle 9 fino alle 18. Lo facevo per aiutare mio padre, anche se lui non mi pagava. Lo facevo pur di fare qualcosa, anche se non mi piaceva tanto e non imparavo niente. Cercavo altri lavori, ma non li trovavo, forse perché non parlavo molto bene l’italiano. La scuola? Magari ci fossi andato! Mi sarebbe piaciuto molto”. 

“E poi ho conosciuto il carcere”.
 “Poi mi hanno arrestato, per la droga, marijuana. È stato uno sbaglio. Mi servivano i soldi, mio padre non ne guadagnava abbastanza. Ho altri 3 fratelli nel mio paese, e deve aiutarli per studiare, per l’affitto, per pagare da mangiare e i vestiti. I soldi mi servivano per avere i documenti. Adesso, da quando sono in comunità, ho iniziato a fare il corso di pizzaiolo e panettiere. E anche il corso d’italiano. Mi piacciono molto, ho imparato un sacco di cose. Ho anche una borsa lavoro di 400 euro. In futuro vorrei continuare a studiare, mi piace. Un giorno vorrei lavorare nel settore del turismo e vorrei girare per l’Europa. Ma prima devo prendere il diploma di terza media, altrimenti chi mi prende?”

La storia di Andrea.

“Mio nonno mi dava 3 euro al giorno”. Anche Andrea (nome di fantasia) è stato sfruttato. Ma sembra non rendersene conto, neanche oggi che ha 17 anni: “A 14 anni, prima di fare casini con la giustizia, ho iniziato a lavorare per il padre di un mio amico in campagna, lo aiutavo a invasare le piante. Lavoravo tra le 2 e le 4 ore al giorno. Mi pagava 3 euro l’ora. Per l’età che avevo mi sembrava il prezzo giusto. Di mattina andavo a scuola e di pomeriggio andavo in campagna, però la scuola non mi piaceva. Verso i 15 anni ho iniziato a lavorare con mio nonno, sempre in campagna. Gli davo una mano perché è anziano. Mi dava 2-3 euro al giorno. Mi è sempre piaciuto lavorare la terra. Quando ho cominciato spesso saltavo la scuola, che poi ho lasciato definitivamente. Alle persone a cui non piace lo studio si dovrebbero proporre cose diverse, più pratiche e creative. Se la mattina sapevo di dover andare a scuola non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal letto e dormivo fino a mezzogiorno, se invece dovevo andare a lavorare mi potevo alzare anche alle cinque, cinque e mezza del mattino”. 

“Non c’è lavoro, neanche in ‘nero’ “. “I miei genitori quando hanno capito che andavo a scuola solo per riscaldare il banco, alla fine mi hanno detto ‘se non vai a scuola almeno vai a lavorare’. Poi ho fatto alcuni casini con la giustizia e mi hanno arrestato. Ho fatto casini perché in quel momento non ci stavo tanto con la testa. Per me il lavoro è una cosa importante, serve sia ad insegnarti cosa puoi fare nella vita e sia a mantenere un famiglia, se un giorno l’avrò. Per me il lavoro non è sacrificio, è una cosa utile. Ma è difficile trovarlo, anche dopo i 16 anni. La maggior parte delle persone non sono disposte a metterti in regola, non si trova nemmeno in nero. Vorrei fare il panettiere, sto cercando nei fornai, anche se può essere faticoso. Se mi dicono che devo lavorare dall’una di notte fino alle dieci del mattino, io ci vado”.

fonte: la Repubblica

http://www.repubblica.it/solidarieta/cooperazione/2014/06/12/news/lavoro_minorile-88725464/?ref=HREC1-8