«Grazie, ma non replico». «Grazie, ma non è nel mio stile». «Grazie, ma non ho niente da dire». Nel corso della conversazione, Stefano Rodotà si interrompe per aprire e chiudere, cortese ma fermo, le telefonate dalle quali arrivano richieste di commentare le parole di Grillo contro di lui. Parole, in effetti, che si commentano da sole: «Un ottuagenario miracolato dalla rete, sbrinato di fresco dal mausoleo dov’era stato confinato dai suoi». Un mese fa Grillo aveva detto di lui, mentre i suoi lo candidavano al Colle: «Ha ottant’anni, ma è un ragazzo». In mezzo c’è un’intervista al Corriere della sera in cui il giurista, uomo-simbolo della sinistra, espone non per la prima volta le sue tesi sulla necessità dell’esperienza parlamentare per gli eletti a 5 stelle. Su una cosa il comico genovese ha ragione: Rodotà ha ottant’anni. Li ha compiuti proprio ieri, l’editrice Laterza lo ha festeggiato ripubblicando in versione ebook un estratto del suo Tecnopolitica, e gli amici studiosi pubblicando una raccolta di saggi. Quanto al resto, il comico non è tipo da accettare critiche. Ma Rodotà non intende farsi trascinare in questa polemica.
Parliamo del voto amministrativo. A Roma Ignazio Marino è al ballottaggio. Come valuta questo voto?
La vicenda romana è una di quelle confortanti. Marino non era un candidato facile. E’ una persona di grande indipendenza, un fatto importante perché Roma in questi anni è diventata una città prigioniera di tanti interessi. L’indipendenza di Marino è dimostrata dal fatto che non ha votato il governo Letta: una scelta che può essere discussa da chi ha un’opinione diversa; ma lui non è stato né un imboscato né un franco tiratore. E gli elettori hanno capito questo suo aspetto di trasparenza. Voglio poi ricordare le sue scelte sul testamento biologico, come presidente della commissione sulla sanità pubblica. E il suo dialogo con il cardinal Martini (nel libro Credere e conoscere, Einaudi, ndr) dove ha affrontato grandi questioni di cultura politica.
Ha votato Marino anche al primo turno?
Sì, e per quel poco che potrò fare in questo periodo, farò di tutto non per dare una mano a Marino, ma a me e a tutti quelli che vivono a Roma e vorrebbero uscire dalla regressione civile e culturale in cui siamo piombati.
Il presidente del consiglio Letta, commentando il risultato delle amministrative, ha detto: sono state premiate le larghe intese. Secondo lei?
Tutti gli analisti hanno dimostrato l’improprietà di trasferire i risultati delle elezioni locali nella dimensione nazionale. Capisco il sospiro di sollievo del Pd, per i timori della vigilia. Ma il voto va analizzato con cura. Anche perché l’esito è determinato da un astensionismo forte e diffuso che ha favorito chi ha un insediamento locale più forte. Il Pd ha goduto di una rendita di posizione, di cui si può essere contenti: ma l’emorragia di voti è continuata. E’ un errore grave ritenere che il buon risultato possa essere usato per non riprendere una discussione sul partito e sull’area di insediamento in cui si trova collocato.
Nelle città hanno vinto alleanze di centrosinistra. Al governo nazionale invece ci sono le “larghe intese”. Ha commentato Vendola sul «manifesto»: come se a Roma finisse con un governo Marino-Alemanno.
Paradossalmente, ma neanche tanto, si potrebbe invece leggere i risultati nel senso opposto: gli elettori preferiscono alleanze politiche che sono l’opposto di quelle del governo. A livello nazionale, il Pd ha fatto un ribaltone del risultato del voto. Anch’io sono stato sollecitato a partecipare alla campagna elettorale, nell’ottica dell’alleanza Italia bene comune. Ma oggi certo non mi riconosco nella maggioranza della quale fa parte il Pd, per ragioni ovvie, di coerenza. Ho analizzato anche a lungo il governo Monti, la sparizione dei diritti civili dal panorama politico: oggi assistiamo all’ex ministro del Pdl Galan che fa un passo avanti sui diritti delle persone omosessuali e sull’eutanasia, mentre dalla parte più vicina a me c’è silenzio totale. Oppure sul lavoro. Oggi il presidente Napolitano fa riferimento all’articolo 1: non dimentichiamo che il Pdl e la Lega hanno sostenuto che quell’articolo doveva essere cancellato. E che è ancora vigente l’art.8 del decreto berlusconiano del 2011 che consente di derogare alla legge in base alle intese stipulate dalle aziende. In pratica abbiamo assistito – lo ha spiegato spesso Umberto Romagnoli sul manifesto – alla dissoluzione privatistica del diritto del lavoro. Quando parliamo di lavoro, dunque, non dobbiamo pensare solo – sacrosantamente – alla lotta alla disoccupazione e al precariato, ma anche alle strutture istituzionali che lo difendono: art.8 e legge sulle rappresentanze sindacali.
Art.8 e rappresentanza: due punti che non fanno parte del programma del governo Letta-Alfano. Ieri la maggioranza ha approvato la mozione sulle riforme. Qual è il suo giudizio?
Faccio alcune osservazioni. Nella mozione si ritrovano le tracce di quella riforma che fu approvata nel 2005 dal governo Berlusconi e che poi 16 milioni di persone hanno bocciato con il referendum. Si parla spesso del tradimento del referendum sul finanziamento pubblico ai partiti. Vale lo stesso argomento anche in questo caso. Altra osservazione: una delle norme di garanzia che vanno tenute ferme è quella sulla revisione costituzionale. E invece la si distorce e manipola, cosa molto pericolosa dal punto di vista istituzionale. Compresa l’idea di un pacchetto unico di riforme. L’argomento è: ci sarà la riduzione del numero di parlamentari, la fine del bicameralismo ma si dirà ai cittadini ‘accettate forme di accentramento di potere’. E’ un’astuzia e un ricatto che non hanno funzionato nel 2006, spero che non funzionino oggi. C’è un solo elemento che guardo con favore: l’impegno su un referendum. Berlusconi aveva chiesto il voto con la maggioranza dei due terzi sulle riforme proprio per sottrarle al voto dei cittadini.
Anche l’ex presidente Prodi si è schierato a favore del semipresidenzialismo alla francese.
Le ricette istituzionali trasferite da un paese all’altro non sempre funzionano. In qualche caso producono rigetto, come i trapianti non riusciti. In questi anni si è detto: abbiamo avuto un bipolarismo conflittuale. Ma, lo abbiamo detto per tempo, il contesto italiano, forzato da riforme parziali, inevitabilmente avrebbe portato in questa direzione. Non è stato l’antiberlusconismo a determinare tutto questo, motivo per cui oggi avremmo bisogno della pacificazione nazionale. Oggi la situazione è altrettanto grave: se in queste condizioni andiamo a forme di investitura più o meno diretta delle massime responsabilità istituzionali, rischiamo effetti divisivi ancora più devastanti. E non si può guardare alla Francia: lì nessun partito ha fatto sconti a Le Pen. Lì c’è un’altra cultura politica e un’alta fedeltà repubblicana. Qui sono stati sdoganati tutti, abbiamo avuto coalizioni con le peggiori regressioni culturali, e ora andiamo a incentivare ulteriormente questa deriva intorno a chi, personalizzando all’estremo, cercherà di raccattare con qualsiasi mezzo il consenso. Dobbiamo ricostruire non gli steccati, ma le culture politiche. Parlo di una cultura della sinistra che sia tale da sostenere un cambiamento così forte, che però non rischi il populismo e la degenerazione del sistema democratico.
intervista di Daniela Preziosi pubblicata su Il Manifesto del 31.05.13