Il mio, il nostro 25 Aprile

25 Aprile Festa della Liberazione

Il mio 25 aprile – quello del 1945 (ultima versione corretta  1 marzo 2020)

Articolo di Redazione

mio commento: ringraziamo Renzo Baricelli che ha scritto per noi, come ha passato il 25 Aprile del 1945, giorno della Liberazione dal nazifascismo. Renzo, ha voluto farci vivere le ore passate in compagnia dei suoi famigliari, con la paura di perdere la vita, quando ormai il nazifascismo aveva le ore contate e volgeva al termine. Nonostante tutto i fascisti continuavano a mietere vittime tra la Popolazione inerme, anche quando ormai erano stati finalmente annientati. Sono convinto che quei momenti siano da enfatizzare perchè facciano da monito per le nuove generazioni di quanto abbia nuociuto al nostro Paese il ventennio fascista. Mario Piromallo

di Renzo Baricelli – Redazione

Allora avevo quasi 11 anni e di quei giorni, ho un ricordo nettissimo che adesso vi  racconto.

Era il 24 aprile 1945 una giornata limpida con un bel sole.

Nel tardo pomeriggio, il motociclista con il sidecar arriva prima del solito. Entra nell’aia davanti a casa, gira la moto e scende giù senza spegnere il motore. Entra in casa e sale di corsa la scala di legno che  portava al primo piano.

Io ero con mia madre e mia nonna nella grande cucina, proprio sotto la camera che i tedeschi avevano requisito per il loro comandante.

Abbiamo sentito un parlottare in tedesco. Poi un fare trafelato nel silenzio delle voci. Poi il rumore di passi rapidi.

L’alto ufficiale tedesco attraversando la cucina indugiò un momento, poi proseguì dicendo, in italiano, quasi come un grido  “povera Italia!” e salì subito sul sidecar. La moto partì a razzo.

Proprio in quel momento ho sentito un sibilo che avvicinandosi si è trasformato in un acuto grido agghiacciante che non avevo mai sentito prima. E subito lo scoppio  fragoroso della prima granata che cercava di colpire il ponte sul canale  a 200 metri da casa nostra.

I miei zii si sono resi subito conto del pericolo, ci chiamarono tutti in casa e dissero: Nella trincea no. Si va sull’argine alto che ci farà da scudo, lontani dai ponti e dalle case. Portiamoci delle coperte per il freddo della notte.

I miei zii avevano preso un badile ciascuno. Ci incamminiamo sulla “peagna” per attraversare la “Fossetta” e ci arrampichiamo sull’argine  alto del “Conduto” e poi via. Avanti cammina, in silenzio, tra l’erba alta, nella sera quasi buia. Avanti cammina, oltre la casa di barba Vincenzo.

Avanti cammina, oltre la casa di zia Marcella e di Toni. Avanti cammina oltre l’ultima casa sulla strada bassa sotto l’argine, quella dei Berneccoli, accompagnati dai sibili ininterrotti degli obici, che pareva inseguissero proprio noi. Avanti cammina, arrancanti, affannati, impauriti.

Senza una parola, senza un gemito. Erano poche centinaia di metri, pareva che non finissero mai.

Superata  la prima curva del canale, Bepe e Armando scesero la scarpata erbosa e, a un paio di metri da pelo dell’acqua, scavarono una tacca abbastanza larga da fare da sedile, sopra uno strato di trapunte e coperte.

Il cannoneggiamento continuava inesorabile.

Sentivo i “pamm” sordi, lontani dei colpi di partenza e a intervalli regolari, il lungo tremendo urlo degli obici che penetravano l’aria  e poi il fragore secco dello scoppio vicino ai tre ponti.

Altri obici ci passavano sopra con quell’urlo ancora più pauroso.

Ben presto la sommità di quell’argine,  che si inoltrava nella campagna inabitata, era diventata la via di fuga per molti militari tedeschi. Quando arrivavano alla curva,  vedevo le loro sagome avanzare circospette,  ma con il passo lesto  di chi ha una grande fretta.

Era quasi l’alba, sul nostro argine, non passavano più tedeschi. Passò un uomo sulla riva opposta, come uno che vagasse, stordito. Prima si fermò, poi  si girò, muto, verso di noi.

Mio zio chiese “chi elo lu” e aggiunse “stalo ben?”

La risposta tardò un poco:

“Si. Si. Sto ben. Me ciamo” … E disse un nome che non mi ricordo.

Poi lo convinsero a spogliarsi e a guadare il canale, che lo avrebbero asciugato e riscaldato con le coperte. Così attraversò l’acqua e passò sulla nostra riva.

Poi, quell’uomo, scosso da brividi che non erano di freddo ma di raccapriccio, raccontò della strage.

Disse che i tedeschi avevano rastrellato più di venti persone e le avevano fucilate tutte contro il muro del cimitero di Villadose, distante meno di due chilometri da casa nostra.

E, tra i singhiozzi, raccontò che non sapeva per quale miracolo fosse rimasto illeso.

E come sonnambulo, senza rendersi conto di quel che faceva, si era tirato fuori da sotto quei corpi insanguinati senza vita e si era incamminato sull’argine e, senza sapere come, era arrivato fin lì.

Dopo le sue parole si fece un silenzio tetro nella luce ancora livida dell’alba.

Così, nel silenzio della stanchezza, con la mente angosciata abbiamo ripercorso il cammino sull’argine alto e siamo ritornati a casa. Ricordo che mi sono buttato su di un pagliericcio  e mi sono addormentato di colpo.

Il sonno è stato breve. Mi hanno svegliato le voci concitate degli adulti. Dicevano che una squadra di fascisti andava in giro ad ammazzare la gente.

Il parente che era venuto ad avvisarci disse che bisognava stare in guardia; che un gruppo di giovani, armati, sarebbe andato a verificare come stessero esattamente le cose; che dovevamo andare subito in un rifugio sicuro, scavato sotto terra nel campo di Toni.

Era un rifugio segreto, alquanto grande. C’erano già alcune famiglie di parenti. Passarono diverse ore.

Poi tornò quel gruppo di giovani andati in perlustrazione e ci informarono che i fascisti erano spariti e quelli che avevano cose sporche sulla coscienza erano andati a nascondersi chissà dove.

Allora siamo ritornati alla casa e ci siamo finalmente rifocillati. E subito a dormire che eravamo pieni di sonno.

Il 26 aprile del 1945, mi sveglio presto. Osservo intorno un gran fermento, una grande eccitazione.

Sento parlare di americani vicinissimi e che una colonna sarebbe passata proprio sui  tre ponti che gli obici non avevano colpito.

Tutto vero. Corro anch’io sullo stradone che era già pieno di gente.

Io, ragazzino, non ancora undicenne, sento un clima assolutamente nuovo: La gente grida viva la pace, viva l’America, viva la libertà. Qualcuno ha gridato viva il comunismo.

Erano per me parole nuove, delle quali non conoscevo il significato.

Come d’improvviso, mi rendo conto di un cambiamento negli sguardi, negli atteggiamenti, la paura è scomparsa, le persone sono felici.

Solo più tardi ho compreso che la gente di quel piccolo paese del Polesine dove ero nato non ne poteva più della guerra e del fascismo. E che quel giorno di aprile del 1945 è stato il giorno della liberazione da un incubo troppo lungo, troppo orribile. Anche per quelli che avevano creduto nella propaganda fascista.

Quel 25 aprile è stato per tutti il giorno della pace e della libertà.

Renzo Baricelli – Redazione