Università gratuita: che vuole dire, perché è giusto, perché fa scandalo?
Nell’assemblea di Liberi e Uguali Pietro Grasso ha proposto l’università gratuitainnescando un gran dibattito. E meno male. Da anni l’Università è stata usata dalla politica come un bancomat per reperire risorse da spendere altrove, oppure oggetto di strampalati anatemi, spessissimo colpevole di non preparare al mondo del lavoro, altre volte ancora considerata come un’accolita di lagnosi, colpevoli di chiedere (ma che pretese!) reclutamento dei precari e adeguamento delle retribuzioni dei docenti.
Fatta la premessa però serve entrare dentro alla questione. Cominciamo con il descriverla.
COME FUNZIONA: garantire la gratuità dell’istruzione significa intervenire in modo coordinato su due piani che devono procedere parallelamente: la graduale abolizione della contribuzione studentesca con una contemporanea rimodulazione in base al reddito della tassa regionale per il diritto allo studio; il potenziamento del diritto allo studio che deve almeno raddoppiare la sua capacità di copertura.
QUANTO COSTA: l’abolizione della contribuzione studentesca costa meno di 1,6 miliardi con una stima per eccesso che corrisponde alle entrate da tasse universitarie secondo il bilancio previsionale 2016 dell’Ufficio di Statistica del Miur. Il potenziamento del diritto allo studio costa circa altri 600 milioni. Per fare un paragone sull’entità della spesa: i famosi 80 € di Renzi costavano 9 miliardi. Gli sgravi fiscali alle imprese collegati al Jobs Act quasi 20 miliardi.
CHI PAGA: Pagano i più ricchi attraverso la fiscalità generale in un sistema da rendere fortemente progressivo. Su questo non devono esserci ambiguità. In un paese in cui l’indice di Gini cresce continuativamente da un decennio contrastare le diseguaglianze è un dovere civile. Qualsiasi intervento, soprattutto quelli di natura universalistica, deve essere finanziato con misure fortementeprogressive. Bisogna cioè combinare interventi re-distributivi (che agiscono a valle del processo di formazione del reddito) e pre-distributivi (che intervengono sui meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari). In questo caso significa prevedere un contributo più elevato da parte di coloro che hanno più redditi e patrimoni per finanziare la gratuità dell’università.
Aggiungo che un’interessante ipotesi di finanziamento sarebbe l’attivazione di una tassa sulle grandi ricchezze finanziarie, sull’impostazione di quella avanzata qualche anno fa dalla CGIL per sostenere quota parte del Piano del Lavoro. Una tassa che riguarderebbe il 5% delle famiglie più ricche e interverrebbe sui soli patrimoni finanziari con un’aliquota progressiva.
PERCHÈ È GIUSTO
I padri e le madri costituenti scrivevano che l’istruzione è obbligatoria e gratuita per almeno otto anni. Perché lo scrivevano? Perché pensavano l’istruzione come un diritto fondamentale e l’aumento dei livelli di scolarizzazione come un obiettivo strategico del paese.
Settant’anni dopo, estendere questo principio all’università mi sembra sacrosanto.
Non è vero ancora più che in passato che la conoscenza rende liberi? E che per districarsi nella sempre maggiore complessità del reale sono necessari sofisticati strumenti critici di comprensione e rielaborazione? Non è vero ancora più che in passato che la produzione di valore è inestricabilmente connessa alla conoscenza e alla capacità di innovazione? E che aumentare i livelli di istruzione è una leva per qualificare il sistema produttivo?
Se non è vero, se non abbiamo accresciuto il nostro bisogno individuale e collettivo di sapere di cosa parlavate, esattamente, nell’ultimo ventennio, voi che parlavate di società della conoscenza?
Concepire l’università (e la formazione tutta) come un diritto e non come un “servizio a domanda individuale” è anche un modo per chiarire da che parte stiamo: stiamo dalla parte di intende la cultura un bene in sé, non necessariamente legato all’incontro tra offerta e domanda nel mercato del lavoro; di chi ha sempre considerato l’istruzione come un potente mezzo di emancipazione, personale e collettiva; di chi rifiuta l’epiteto di bamboccioni perché intorno a noi vediamo tante aspirazioni costantemente frustrate da un sistema immobile e classista.
Insomma, l’Università va considerata un diritto fondamentale e rappresenta un investimento strategico per il benessere collettivo, per questo, così come per la scuola, è giusto che sia accessibile a tutti e finanziata attraverso la fiscalità generale. Una fiscalità generale molto più progressiva perché in un sistema equo chi ha di più deve contribuire di più.
PERCHE’ FA SCANDALO
Qui, secondo me, bisogna prenderla un po’ alla larga. Il ‘900 è stato anche il secolo della scuola e l’università di massa o, meglio, che ambivano a diventarlo. Non potremmo immaginarlo senza l’innalzamento dei livelli di istruzione. Sembrava, quella dell’istruzione di massa, una traiettoria progressiva e inarrestabile. Eppure questa traiettoria ha subìto, negli ultimi decenni, una brusca interruzione. Ne abbiamo diverse prove, ne cito due:
1. Nell’ultimo decennio, con un’inversione di tendenza di portata storica sono calati drasticamente gli studenti che si iscrivono all’università (quest’anno -40.000 rispetto al 2004-2005);
2. abbiamo assistito alla riduzione, di fatto, dell’obbligo scolastico: l’effetto combinato di jobs act e legge 107 ha determinato la possibilità di assolverlo in apprendistato che significa, appunto, abbassare -di fatto- l’obbligo. Già un ottimo motivo per abrogare per direttissima entrambe queste leggi.
Perché è successo? Perché in questi anni si è affermata un’idea opposta a quella che ha animato il ‘900: quella dell’istruzione, e in particolare dell’Università, per pochi “eccellenti”. Le retoriche meritocratiche, insieme alla campagna denigratoria contro l’università, servivano a sostenere l’idea di un’università ridotta a pochi poli di eccellenza, per pochi studenti eccellenti. Un’idea sbagliata, oltre che iniqua, che scommette sulla restrizione della conoscenza invece che sulla sua diffusione. Per pochi e non per molti, insomma. Pochi territori, pochi studenti, pochi ricercatori, poche ricerche. Solo quelli eccellenti.
Contemporaneamente si è radicata un’altra, deleteria, idea, che ha invaso i servizi pubblici: quella che ciascuno se li paga. Un modo per iniettare la logica del servizio a domanda individuale dentro tutti i servizi pubblici, uno dei volti dei processi di privatizzazione. Tramonta qui l’idea dell’interesse collettivo e che il Pubblico ne sia garante. E insieme tramonta l’idea della responsabilità collettiva.
PER SMENTIRE LE FAKE NEWS SUL TEMA
A chi dice che non ci sono i soldi bisogna ricordare che l’Italia spende il 4,1% del Pil in istruzione a fronte di una media europea del 4,9% (Eurostat).
A chi dice che abbiamo troppi laureati va spiegato che abbiamo un numero di laureati ben inferiore alla media europea: il 26% di chi ha tra 30 e 34 anni a fronte di una media europea del 40%.
A chi sostiene che le tasse universitarie in Italia sono basse bisogna far leggere l’ultimo rapporto Eurydice, il quale rileva che le tasse universitarie in Italia non sono alte, sono molto alte. Le più alte in Europa dopo Inghilterra e Olanda. Corrispondono a 1400 Euro medie all’anno.
A chi dice che l’accesso all’università non dipende da fattori economici va ricordato che il nostro sistema è uno dei più iniqui in Europa perchè combina alte tasse universitarie con poche risorse per il diritto allo studio: le borse di studio in italia sono poche, pochissime, e non coprono neanche tutti gli aventi diritto. Per dare un ordine di grandezza: in Italia beneficia di borsa di studio il 9% degli studenti universitari, in Francia il 39%, in Spagna il 30% e in Germania il 25%.
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